lunedì 22 luglio 2013

"Manifesto Per La Soppressione Dei Partiti Politici" Simone Weil

La parola partito è qui usata nel significato che ha nel continente europeo. Solo nei Paesi anglosassoni lo stesso termine designa una realtà affatto differente. Affonda le sue radici nella situazione inglese, e non è possibile trasporlo. Un secolo e mezzo d’esperienza lo mostra a sufficienza. E’ presente, nei partiti anglosassoni, un elemento di gioco, di sport, che non può esistere che in un’ istituzione di origine aristocratica: tutto è serio in un’ istituzione che, in origine è plebea. L‟idea di partito non rientrava nella concezione politica del 1789, se non come quella di un male da evitare. Ma giunse il momento del club dei giacobini. Era questo, inizialmente, soltanto un luogo di libera discussione. A trasformarlo non fu una qualche specie di meccanismo fatale: fu soltanto la pressione della guerra e della ghigliottina a farne un partito totalitario. Le lotte tra fazioni nel periodo del Terrore furono governate dal pensiero così ben formulato da Tomskij: “Un partito al potere e tutti gli altri in prigione”. Così, sul continente europeo, il totalitarismo è il peccato originale dei partiti. Furono da un lato l’eredità del Terrore, dall’altra l’influenza dell’esempio inglese a insediare i partiti nella vita pubblica europea. Il fatto che esistano non è in alcun modo un motivo per conservarli. Soltanto il bene è un motivo legittimo di conservazione. Il male dei partiti politici salta agli occhi. La questione da esaminare è se ci sia in essi un bene che abbia la meglio sul male e renda così la loro esistenza desiderabile. Ma è molto più sensato chiedersi: c’è in loro anche solo una particella infinitesimale di bene? Non sono forse un male allo stato puro, o quasi? Se sono un male, è certo che nei fatti e nella pratica non possono produrre altro che male. E‟ un articolo di fede. “un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni”. Ma bisogna innanzitutto riconoscere quale sia il criterio del bene. Non può essere rappresentato che dalla verità, dalla giustizia e, in seconda battuta, dall’utilità pubblica. La democrazia, il potere della maggioranza non sono un bene. Sono mezzi in vista del bene, stimati efficaci a torto o a ragione. Se la Repubblica di Weimar, al posto di Hitler, avesse deciso, per vie più rigorosamente parlamentari e legali, di mettere gli ebrei nei campi di concentramento e di torturarli con metodi raffinati fino alla morte, le torture non avrebbero avuto un atomo di legittimità in più di quanta ne abbiano adesso. Eun tale fatto non è in alcun modo inconcepibile. Solo ciò che è giusto è legittimo. Il crimine e la menzogna non lo sono in nessun caso. Il nostro ideale di repubblicano deriva interamente dalla nozione di volontà generale dovuta a Rousseau. Ma il senso della nozione è andato perso quasi immediatamente, perché il concetto è complesso e richiede un grado di attenzione elevato. Con l’eccezione di alcuni capitoli, pochi libri sono belli, forti, lucidi e chiari come Il contratto sociale. Si dice che pochi testi siano stati altrettanto influenti,ma in effetti tutto è accaduto e continua ad accadere come se non fosse mai stato letto. Rousseau partiva da due certezze. Una, che la ragione discerne e sceglie la giustizia e l‟utilità innocente, e che qualunque crimine ha per movente la passione. L‟altra che la ragione è identica in tutti gli uomini, mentre le passioni, il più delle volte, differiscono.Di conseguenza se, su un problema generale, ognuno riflette in solitudine ed esprime un’opinione, e se in seguito le opinioni sono confrontate tra loro, probabilmente esse coincideranno per ciò che di giusto e ragionevole c‟è in ognuna e differiranno per le ingiustizie e gli errori. E‟ unicamente in virtù di un ragionamento di questo genere che si ammette che il consenso universale indica la verità. La verità è una. La giustizia è una. Gli errori, le ingiustizie, sono indefinitamente variabili. Così gli uomini convergono nel giusto e nel vero, mentre la menzogna e il crimine li fanno indefinitamente divergere. Poiché l’unione è una forza materiale, si può sperare, di trovarvi una risorsa che permetta di rendere quaggiù la verità e la giustizia materialmente più forti del crimine e dell’errore. Per raggiungere questo fine è necessario un meccanismo adatto. Se la democrazia costituisce tale meccanismo, è buona. Altrimenti no. Agli occhi di Rousseau, che era nel giusto, un volere ingiusto, comune a tutta una nazione, non era in alcun modo superiore al volere ingiusto di un singolo uomo. Rousseau pensava solamente che, nella maggioranza dei casi, un volere comune a tutto un popolo è conforme nei fatti alla giustizia, per via della mutua neutralizzazione e compensazione delle passioni particolari. Era questo, per lui, l’unico motivo per preferire il volere del popolo a un volere particolare. Allo stesso modo una certa massa d’acqua, benché costituita da particelle che si muovono e si urtano tra loro senza sosta, si mantiene in uno stato di equilibrio e riposo perfetti. Rinvia agli oggetti la loro immagine con un’esattezza impeccabile. Indica perfettamente il piano orizzontale. Dice senza errore la densità degli oggetti che vi sono immersi. Se individui appassionati, inclini per via della passione al crimine e alla menzogna, si compongono allo stesso modo in un popolo vero e giusto, allora è bene che il popolo sia sovrano. Una costituzione democratica è buona se per prima cosa si realizza nel popolo questo stato di equilibrio, e soltanto in seguito fa in modo che le volontà del popolo siano eseguite. Il vero spirito del 1789 consiste nel pensare non che una cosa sia giusta perché il popolo la vuole, ma che a determinate condizioni il volere del popolo abbia maggiori possibilità di qualsiasi altro volere di essere conforme alla giustizia. Esisitono numerose condizioni necessarie perché si possa ricorrere alla nozione di volontà generale. Due, in particolare, meritano attenzione. - La prima è che nel momento in cui il popolo prende coscienza di una delle sue volontà e la esprime non sia presente alcuna specie di passione collettiva. È del tutto evidente che il ragionamento di Rousseau viene a cadere non appena sia in atto una passione collettiva. Rousseau lo sapeva bene. La passione collettiva è un impulso al crimine e alla menzogna infinitamente più potente di qualunque passione individuale. In questo caso gli impulsi nocivi, lungi dal neutralizzarsi, si innalzano vicendevolmente all‟ennesima potenza. La pressione è quasi irresistibile, tranne che per i santi autentici. Un’ acqua messa in moto da una corrente violenta, impetuosa, non riflette più gli oggetti, non ha più una superficie orizzontale, non indica più la densità. E poco importa che sia mossa da una sola corrente o magari da cinque o sei correnti che si urtano e creano vortici. In entrambi i casi è ugualmente mossa. Se un‟unica passione collettiva si impadronisce di tutto un Paese, il Paese intero è unanime del crimine. Se due o quattro o cinque o dieci passioni collettive lo dividono, il Paese sarà spaccato in varie bande criminali. Le passioni divergenti non si neutralizzano, come avviene per la polvere delle passioni individuali fuse in una massa. Il loro numero è decisamente troppo piccolo, la forza di ognuna è decisamente troppo grande, perché sia possibile una neutralizzazione. La lotta le esaspera. Si urtano con un clangore infernale, che rende impossibile sentire anche per un secondo la voce della giustizia e della verità, sempre quasi impercettibile. Quando un Paese è in preda ad una passione collettiva, è probabile che qualunque volontà particolare sia più vicina alla giustizia e alla ragione della volontà generale, o piuttosto di ciò che ne costituisce la caricatura. - La seconda condizione è che il popolo sia chiamato a esprimere il proprio volere riguardo aiproblemi della vita pubblica, e non solamente ad operare una scelta di persone. Meno ancora la scelta di collettività irresponsabili. Poiché la volontà generale non ha alcuna relazione con una scelta di questo genere. Se nel 1789 c’è stata una certa espressione della volontà generale, nonostante si fosse adottato il sistema rappresentativo non sapendone immaginare un altro, questo è accaduto perché si è verificato qualcosa di ben diverso da un’elezione. Tutto ciò che c’era di vivo in tutto il Paese (e il Paese straripava, a quel tempo, di vita), aveva cercato di esprimere il proprio pensiero attraverso l’organo dei cahiers de revendications. I rappresentanti si erano in gran parte fatti conoscere nel corso di questa cooperazione del pensiero: ne serbavano il calore, sentivano il Paese attento alle loro parole, ansioso di controllare se queste traducessero con esattezza le sue aspirazioni. Per qualche tempo (poco tempo) furono veramente semplici organi di espressione del pensiero pubblico. Un simile fatto non si sarebbe prodotto mai più. La sola enunciazione di queste due condizioni indica che non abbiamo mai conosciuto nulla che assomigli, neppure da lontano, a una democrazia. Nella cosa a cui attribuiamo questo nome, in nessun caso il popolo ha l‟occasione o i mezzi di esprimere un parere su alcun problema della vita pubblica. E tutto ciò che sfugge agli interessi particolari è dato in pasto alle passioni collettive, le quali sono sistematicamente, istituzionalmente incoraggiate. L’uso stesso dei termini democrazia e repubblica obbliga a esaminare con estrema attenzione i due problemi seguenti: - Come dare realmente agli uomini che compongono il popolo di Francia la possibilità di esprimere, talvolta, un giudizio sui grandi problemi della vita pubblica? - Come impedire, nel momento in cui il popolo è interrogato, che vi circoli all‟interno una qualunque specie di passione collettiva? Se non si riflette su questi due punti, è inutile parlare di legittimità repubblicana. Non è facile concepire delle soluzioni. Ma è evidente, dopo un attento esame, che qualunque soluzione implicherebbe innanzitutto la soppressione dei partiti politici. 

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