domenica 17 novembre 2019

APPELLO DEGLI SCIENZIATI PER IL CLIMA, MULTINAZIONALI e APOCALISSE ZOMBIE...

Resident Evil è una serie di videogiochi in cui l'eroina Alice, combatte contro una potente multinazionale- delle biotecnologie l'Umbrella corporation per salvare quello che resta dell'umanità dopo una terribile apocalisse zombie. Nelle ultime saghe si scopre che la corporation stessa, per alleviare del peso dell'umanità il mondo, aveva diffuso il virus, ed aveva creato un "alveare" in cui tutti i dirigenti dell'azienda (anche loro contrari al suffragio universale) si erano rifugiati per poi ricreare un mondo "migliore". Caratteristica dei film e dei videogiochi è la totale assenza di una qualsiasi forma di stato-nazione che tutela i superstiti dalla pandemia. E' quindi buffo vedere un appello di 11 mila scienziati che al punto"punto 6 dichiarano bisogna trovare un modo per ridurre la popolazione mondiale. Nascono 200k umani al giorno e bisogna invertire la rotta. Garantendo però equità." E contemporaneamente vedere uno stato nazionale come l'Italia pietire una multinazionale straniera di prendersi un asset strategico per la sua sovranità. Non vorrei che come al solito, dietro quello sembra un gioco,un prodotto della fantasia qualcuno aveva visto lungo.....

Euro un atto di fede...

Alla fine diventa più un atto di fede, credere che l'Euro ci convenga, che una realtà economica. Atto di fede deciso da sacerdoti indiscutibili. Se si deve fare un atto di fede, beh ragazzi non sulla moneta. Il problema degli atti di fede è che rendono impossibili discussioni sulla realtà o idee alternative, chiudono la discussione fino al disastro...

venerdì 1 novembre 2019

Tollerare l'intolleranza

L'ultima foto è un Italiana Sveva Basirah Balzini convertita all'Islam che ci racconta che l'Islam è pace,uguaglianza di generi e libertà , la prima foto una Siriana Amani El Nasif, che nata in Italia fu portata in Siria a 16 anni per essere sposata a forza ad un cugino di primo grado di 15 anni più grande, picchiata e costretta alla Jihab, solo grazie ad uno zio riesce a fuggire rientrando in Italia e racconta in un libro la sua storia di schiavitù. Ho provato a leggere qualcosa sull'Islam ma mi sono fermato al nome «sottomissione, abbandono, consegna totale [di sé a Dio]». Mi suona già storto, abituato ad un Dio messo in croce per rimediare ai nostri peccati. È una vita che ci insegnano la tolleranza e il relativismo, ma nessuno ci hai mai spiegato di cosa é fatto quello che dovremmo tollerare; chi ha ragione delle due?

mercoledì 9 ottobre 2019

Grandi successi italiani nella gestione della manutenzione

Oggi ricorre la strage del Vajont 1917 morti per riuscire a vendere la Diga operativa a pieno livello. Snoccelerò una lista di grandi successi Italiani, per ricordarci perchè alla fine non abbiamo mai fatto il nucleare. Grazie al Vajont siamo detentori del record mondiale (mi ripeto record mondiale, nessuno ci ha mai eguagliato) di morti per il crollo di una diga.
-1° dicembre 1923. Disastro del Gleno in val di Scalve in provincia di Bergamo: più di 350 morti per il crollo di una diga realizzata per la produzione di energia elettrica.
- 13 agosto 1935. Disastro di Molare in provincia di Alessandria: più di 100 morti per il crollo di una diga realizzata per la produzione di energia elettrica.
- 9 ottobre 1963. Disastro del Vajont: 1910 morti per la frana nel bacino realizzato per la produzione di energia elettrica.
-9 marzo 1976. Disastro della funivia del Cermis in provincia di Trento: 42 morti per la manomissione del freno di emergenza.
-10 luglio 1976 Disastro di Seveso-Fuoriuscita di nube tossica del tipo TCDD-Morti: 0 esseri umani; 3.300 animali (altri 76.000 abbattuti)- Da cui nasce la direttiva Europea Seveso-primato continentale.
- 19 luglio 1985. Disastro della val di Stava: 268 morti per il crollo delle discariche della miniera di Prestavèl realizzate per lo stoccaccio dei fanghi residuati della lavorazione della fluorite mediante flottazione.
-24 agosto 1987. Disastro della val Martello in provincia di Bolzano: ingenti danni alle cose e all’ambiente per l’apertura della paratia di base della diga di Giovaretto realizzata per la produzione di energia elettrica per evitare la tracimazione della diga perché già in agosto il serbatoio era al limite della capacità per produrre il massimo di energia nei mesi invernali; la popolazione è stata evacuata.
-5 e 6 maggio 1998. Disastro di Sarno e Quindici in provincia di Salerno e Avellino: 160 morti per una colata di fango dovuta all'incuria e allo stato di abbandono in cui si trovavano da anni i canali di scolo di epoca borbonica, i cosiddetti "regi lagni".
- 12 aprile 2010. Disastro della val Venosta in provincia di Bolzano: 9 morti e 28 feriti per una frana sulla linea ferroviaria provocata dalla perdita di una conduttura di un impianto di irrigazione.
14 agosto 2018-Crollo del ponte Morandi 43 morti- report sullo stato manutentivo del ponte falsificati. Qui siamo solo secondi all'India.

lunedì 7 ottobre 2019

IL LIBRO DI TALBOTT di Chuck Palahniu

"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 186","","Per tutte le matricole aveva tenuto un breve corso su un libro scritto da un fulminato tedesco, tale Gunnar Heinsohn. Secondo ’sto professorone, tutti gli eventi politici più sanguinosi della storia sarebbero da ricondurre a un sovrappiù di giovani maschi. Lo chiama “surplus giovanile”, il crauto sapiente. E Brolly, illustrando il concetto, rimaneva senza fiato per l’emozione. In sostanza, l’idea era che se almeno il trenta per cento di una popolazione è costituito da uomini tra i quindici e i ventinove anni… sono guai!"

"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 189","","Questi giovanotti in sovrappiù, posto che siano in una certa misura istruiti e ben pasciuti, ambiranno al riconoscimento sociale e per ottenerlo sono pronti a far disastri. Secondo Gunnar, la gente affamata non smania per il riconoscimento sociale. Allo stesso modo, i giovani illetterati non arriveranno mai a rendersi conto di come la storia li ignori. Se invece il sovrappiù giovanile è ben nutrito e istruito, si trasformerà in un branco di lupi voracemente affamati di attenzione. Shasta aveva assorbito ogni particolare. A quanto pareva, tutti i peggiori eventi della storia umana erano stati causati da un surplus di materiale fidanzabile bello fresco."

"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 360","","concittadini americani rimasti in patria. Il senatore guarda giù verso i lavoratori che scavano sotto il sole pomeridiano. E sudano nell’umida estate del Potomac. Sorride, il senatore, al pensiero del consistente surplus di donne che si creerà nel giro di qualche settimana. Il femminismo si sarebbe dissolto, e le signore si sarebbero dovute comportare bene per non rischiare di morire da sole e finire divorate dai loro gatti. Meno turbolenze sociali, più bellezze disponibili. Per il senatore Daniels e gli uomini come lui, la dichiarazione di guerra sarebbe stata una vittoria su tutta"

"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 368","","Quanto prima si fossero onorati i caduti, tanto prima li si sarebbe potuti dimenticare."

"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 675","","Con il tramonto dei giornali, tutto era stato rimesso in discussione. Nessuno più argomentava e dibatteva con chiarezza, discernendo la qualità dalla merda, il vero dal falso. Senza un controllore, un arbitro, tutto aveva ugualmente valore. Il professor Brolly aveva dato da leggere La società degli eterni adolescenti di Robert Bly. Questo libro afferma che la società moderna ha perso la sua gerarchia tradizionale. Da patriarchi e matriarche che erano, padri e madri sono regrediti al livello dei loro figli. Nessuno vuole più essere adulto, e le persone sono amiche, in una condizione di parità e uguaglianza, mai in un rapporto docente-discente. Ridotti a fratelli. L’appiattimento della gerarchia sociale, aveva pronosticato Brolly, sarebbe sfociato nel populismo. Non una piccola cerchia di saggi illuminati, bensì la moltitudine mossa dall’emozione e dall’avidità si sarebbe impadronita delle redini del potere."


"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 810","","A tutti gli schiavi spettavano alcuni giorni di libertà. Veniva dato loro tutto il brandy di mele che riuscivano a bere e tutta la carne di maiale che riuscivano a mangiare. Come racconta Frederick Douglass, gli schiavi mangiavano, bevevano e gozzovigliavano fino a star male. Ogni anno, questi eccessi li riducevano in condizioni pietose. Gli schiavi, per questo, si convincevano di non avere forza di volontà. Di aver bisogno di un padrone per tenere a bada i propri impulsi più bassi. Dopo alcuni giorni di esagerazioni di ogni tipo, erano ben contenti di tornare a essere schiavi."

"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 887","","Rispetta le regole. Riga dritto, e della tua vita o della tua morte non importerà niente a nessuno."

"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 893","","Quello che gli avevano insegnato a scuola era utile fino a un certo punto, altrimenti il suo professore di algebra avrebbe avuto un jet privato e se la sarebbe spassata bevendo champagne da una scarpetta da donna."

"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 918","","denaro, infatti, è l’essenza più pura di ogni cosa, la forma che ogni cosa assume prima di reincarnarsi in qualcos’altro. E Walter si sarebbe trasformato in quel Walter originario, che esisteva prima che gli fossero instillate le opinioni e l’istruzione e la prudenza. Il Walter che diventava quando guardava foto porno. L’avrebbe trovato lì in Madison"

"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 1124","","L’uomo sarà sempre soggetto al dolore e alla malattia. Scegli, dunque, il tuo male, che sia quello del lavoro manuale o della fatica eccessiva. Pianificalo. Assaporalo. Usa la tua sofferenza per non esserne usato."

"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 1229","","Mussolini, come anche verso il teorico del denaro Silvio Gesell. Quest’ultimo era dell’idea che tutte le banconote di grosso taglio dovessero avere una data di scadenza, in modo da impedire che i ricchi le accumulassero mentre i poveri non trovavano lavoro e morivano di fame. Nel sogno di Pound, le banche e i ricchi non avrebbero mai potuto ridurre in schiavitù una nazione con la potenza della sua valuta."

"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 1643","","Gli tornano alla mente le parole di un ex insegnante. Tempo addietro, un professore aveva impartito una lezione a Jamal. Il professor Brolly, parlando della cultura ellenica, aveva detto che i greci antichi, tra i generi del teatro, prediligevano la commedia. Le commedie erano di gran lunga più numerose delle tragedie, perché i greci credevano che ogni impresa umana fosse insignificante e risibile agli occhi degli dèi che guardavano dall’alto. L’umanità era, per gli dèi, fonte inesauribile di spasso.Quando la cultura cristiana aveva soppiantato quella greca, i cristiani avevano distrutto quasi tutte le commedie. Le storie tragiche corroboravano il punto di vista cristiano, e per questo la Chiesa aveva conservato l’Edipo re, Medea e Prometeo incatenato, cancellando tutto ciò che non si confaceva agli ideali cristiani di sofferenza e martirio. Per i greci antichi, l’assurdo era più profondo del tragico. Questi sono i pensieri di Jamal mentre guarda dall’alto come un dio dell’Olimpo."

"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 2180","","Solo l’uomo bianco, infatti, si avvinghia al suo senso di colpa. La colpa della caduta di Adamo. La colpa per il sacrificio di Cristo e per la schiavitù dei neri africani. Era evidente, almeno agli occhi di Jamal, che per i bianchi il senso di colpa rappresentava un tipico modo di vantarsi. Il loro percuotersi il petto era una vanteria sotto mentite spoglie, che significava: siamo stati noi! Abbiamo tradito Dio nell’Eden! Abbiamo ammazzato suo figlio! Noi bianchi disporremo delle altre razze e delle risorse naturali come più ci parrà opportuno! Sbruffoneria mascherata da mea culpa. Per l’uomo bianco, il senso di colpa è il segno di distinzione più importante. Solo i bianchi uccidono il pianeta con il riscaldamento globale, perciò sono loro i soli che possano salvarlo. Il loro autoincensarsi non ha mai fine. È il sistema dei bianchi: creare problemi agli altri per poi poterli salvare."

"Evidenziazione (Giallo)","Posizione 4279","","Fino a poco tempo prima, erano state le circostanze a indurci ad associarci e a restare uniti. La vicinanza prolungata con i vicini di casa, con i colleghi di lavoro e con i nostri correligionari nelle chiese. Con i compagni di studi. Tutte queste strutture erano servite con la loro solidità a cementare il senso di appartenenza collettivo. Ma quando la gente aveva cominciato a cambiare casa con frequenza, quando i posti di lavoro erano diventati meno stabili e le chiese avevano perso rilevanza, avevamo smesso di coltivare relazioni affidabili. Stando a quel che diceva Talbott, l’identità razziale e l’orientamento sessuale dovevano diventare l’estremo baluardo della comunità. Mentre tutte le altre narrazioni unificanti cadevano a pezzi, mentre tutte le labili circostanze esteriori perdevano consistenza, noi saremmo stati costretti a compattarci sulla base dei fattori più elementari: il colore della pelle e le preferenze sessuali."

lunedì 16 settembre 2019

Immerso nel sogno....

In montagna quella pace che raccontano non l'ho mai trovata, né sono rimasto così sconvolto da un panorama da tornare a casa cambiato. Nella vetta sono arrivato sempre stanco e spesso se non ero distratto dalla stanchezza, non soddisfatto. Ma quel camminare, quel progettare, quel sognare che c'è prima; quella bozza di idea, quel senso di difficile ma domabile con preparazione e riflessione mi piacciono. Come mi piace all'ultimo momento cambiare tutto e trovarmi perso in un altro percorso. È il sogno che motiva tutto, non il momento in cui finisce, si realizza. E conoscendo il gioco, già nella strada del ritorno,sei lì immerso nel prossimo.

martedì 10 settembre 2019

In morte di Mya

No limits, nothing Is impossible, Just Do It, esci dalla zona di comfort; una volta esisteva il concetto di limite, di hybris, di finito. Ora si vende al mondo che se tu vuoi, puoi, se non riesci la colpa è solo tua. È la più grande tortura imposta alle menti dei ragazzi. La droga o gli anestetizzanti che circolano sono solo i drammatici effetti di una società nata e fondata sulla competitività, sul bello, sul perfetto, sul non riposarsi mai. È aberrante, una ragazzina già famosa si suicida in casa, impiccandosi per voti non buoni. Ma questo non vi fa orrore? cosa stiamo rifilando come bello e giusto, la solitudine dell'uomo mangia uomo in una competizione senza senso con se stessi e gli altri. Al primo che mi dirai di uscire dalla mia zona di comfort darò un bel pugno in faccia, perché è un cretino. La zona di comfort è fatta per farci stare bene per darci un po' di pace in un mondo duro, a quella ragazzina sarebbe bastato dire con la media del 6, si sta bene uguale....e se anche non la raggiungi, non importa goditi l'esistenza , al mondo basta e avanza quello che puoi fare.

Non mi fido del capitano....

Quando Italo Balbo trasvolò per primo l'oceano atlantico e atterrò in America, tornò in Italia con un bagaglio di esperienza che riversò su Benito. Disse testuali parole riportate in uno slang moderno " a Benì e lascia sta...non competiamo". Il nostro capitano di allora, lo fece cannoneggiare in Etiopia e Balbo morì ucciso da fuoco amico. Mussolini prese armi e bagagli ed entro comunque in guerra con Adolf. Probabilmente se Mussolini avesse ascoltato Balbo, l'Italia era ancora Fascista. Di storie così, nella storia Italiana ce ne sono a bizzeffe; posso anche ricordare Cadorna. Cadorna fece 11 offensive prima che Rommel lo tollasse a Caporetto, 11 stragi che i muri di tutti paesi di Italia ancora piangano, prima di cambiare strategia; poi rimpiazzato da Diaz. Non leggo su nessun libro di storia che quelle furono morti completamente inutili e che il fronte non avanzava di un metro; contate fino a 11 a voce alta, 11 stragi per capire che si stava sbagliando qualcosa.Se non ci fosse stato Erwin nei paesi per ricordare le vittime, non sarebbero bastate le colonne. I nostri capitani presi dalla retorica perdono completamente il contatto con la realtà. Non paragono Salvini minimamente alle figure, citate sopra, sono di ben altro spessore; ma l'andazzo sì, è quello. Ma esattamente cosa potevi fare una volta che ti sei messo tutti contro? Come pensi di ottenere anche il minimo base e andare a chiedere in Europa maggiore flessibilità? Attenti quindi Italiani ai capitani, perchè poi quando le cose si mettono male, ed anche qui la storia mi dà ragione, sono i primi ad andarsene.

La depressione secondo David Foster Wallace-il pianeta Trillafon in relazione alla cosa brutta

Prendo gli antidepressivi da, quanto sarà, un anno, e ritengo di avere i numeri per dire come sono. Sono straordinari, davvero, ma sono straordinari come sarebbe straordinario vivere, che so, su un altro pianeta caldo e comodo fornito di cibo e acqua fresca: sarebbe straordinario, ma non sarebbe la cara vecchia Terra. Ormai è quasi un anno che non sto sulla Terra, perché sulla Terra non me la cavavo
troppo bene. Diciamo che me la cavo un po’ meglio dove mi trovo adesso, sul pianeta Trillafon, con grande piacere, credo, di tutti gli interessati. A prescrivermi gli antidepressivi è stato un dottore molto simpatico che si chiama dottor Kablumbus in un ospedale dove mi hanno portato per pochissimo tempo dopo un incidente davvero ridicolo con certe apparecchiature elettriche dentro la vasca da bagno del quale non ho davvero voglia di dire granché. Sono dovuto andare in ospedale per le cure mediche in seguito a quello stupidissimo incidente, e due giorni dopo mi hanno trasferito a un altro piano dell’ospedale, un piano più alto, più bianco, dove c’erano il dottor Kablumbus e i suoi colleghi. Hanno discusso un bel po’ dell’eventualità di sottopormi alla TEC, che poi sarebbe l’abbreviazione di «Terapia Elettroconvulsivante», solo che la TEC a volte cancella pezzi di memoria – piccoli particolari trascurabili tipo come ti chiami, dove abiti, ecc. – ed è terrificante anche sotto certi altri aspetti, perciò noi – io e i miei genitori – abbiamo deciso di non farla. Una legge del New Hampshire, che poi sarebbe lo Stato dove vivo, stabilisce che la TEC non può essere praticata senza il consenso dei genitori. A me sembra una gran bella legge. Così il
dottor Kablumbus, che ha davvero a cuore unicamente il mio interesse, mi ha prescritto invece gli antidepressivi.
Se qualcuno vi racconta di aver fatto un viaggio, vi aspettate come minimo uno straccio di spiegazione sul perché è partito per quel viaggio. Alla luce di questo vi racconterò certe cose che spiegano come mai le cose sulla Terra per me non andavano troppo bene ormai da un pezzo. È stranissimo, ma tre anni fa, quand’ero all’ultimo anno delle superiori, ho cominciato a soffrire di quelle
che ora chiamerei allucinazioni. Ero convinto che un’enorme ferita, una ferita davvero enorme e profonda, mi si fosse aperta sulla faccia, sulla guancia vicino al naso… che la pelle si fosse spaccata come un frutto maturo, che uscisse il sangue, scuro e lucido, che si vedessero chiaramente le vene, i pezzetti di grasso facciale giallo e di muscolo grigio-rosso e perfino qualche sfolgorante bagliore d’osso, là dentro. Ogni volta che mi guardavo allo specchio, eccola lì, la ferita, e sentivo la contrazione del muscolo scoperto e il calore del sangue sulla guancia, di continuo. Ma se dicevo a un medico, a mamma o a qualcun altro: – Ehi, guarda questa ferita aperta che ho sulla faccia, dovrei andare in ospedale, – loro dicevano: – Aho, non hai nessuna ferita sulla faccia, sicuro che ci vedi bene? – Eppure ogni volta che mi guardavo allo specchio, eccola lì, e sentivo sempre il calore del sangue sulla guancia, e ogni volta che ci passavo sopra la mano le dita sprofondavano in quella che sembrava gelatina bollente con dentro ossa, tendini e cose varie. E sembrava sempre che la guardassero tutti.
Sembrava che mi squadrassero in modo buffo, e io pensavo: «Dio santo, hanno davvero il voltastomaco, la vedono, devo andare a nascondermi, levarmi di torno». Invece forse mi squadravano perché sembravo spaventatissimo e sofferente e mi tenevo la mano sulla faccia e barcollavo ovunque e di continuo come un ubriaco. All’epoca, però, sembrava proprio vera. Strano, strano, strano. Subito prima di diplomarmi – o forse un mese prima, forse – la faccenda si era messa davvero male, nel senso che quando toglievo la mano dalla faccia vedevo sulle dita il sangue, i pezzetti di tessuto e cose varie, e sentivo pure l’odore del sangue, come rame e metallo rovente arrugginito. Così una sera che i miei erano usciti ho preso ago e filo e ho cercato di cucirmi la ferita da solo. Ho sentito un male boia perché naturalmente non avevo una goccia di anestetico. È stato brutto anche perché ovviamente, adesso lo so, non c’era davvero nessuna ferita da cucire.
Mamma e papà non sono stati per niente contenti quando rientrando a casa mi
hanno trovato ricoperto di sangue vero e con una caterva di punti tutti storti e malfatti di filo arancione sgargiante bello spesso sulla faccia. Erano davvero sconvolti. E poi i punti erano troppo profondi – a quanto pare avevo affondato incredibilmente l’ago – e quando in ospedale hanno cercato di tirare via i
punti, sotto è rimasto impigliato un po’ di filo che dopo ha fatto infezione, così mi è toccato tornare in ospedale dove per togliere tutto, spurgare e ripulire hanno dovuto farmi una ferita vera. Quando si dice l’ironia della sorte. E poi mi sa che facendo i punti così profondi devo aver infilato l’ago dentro qualche nervo della guancia mettendolo fuori uso, e adesso certi pezzi di faccia mi si intorpidiscono
senza motivo, e la bocca pende un poco sul lato sinistro. So per certo che pende e che ho questa bella cicatrice, qui, perché non si tratta solo di guardarmi allo specchio, vederla e sentire che c’è; gli altri, anche se con estremo tatto, mi dicono che la vedono anche loro.
Fatto sta che secondo me quell’anno se ne sono accorti tutti che ero un soldatino pieno di problemi, me compreso. Dopo tante chiacchiere e consultazioni abbiamo deciso di comune accordo che forse era nel mio interesse rinviare l’ingresso alla Brown University del Rhode Island, dove sarei dovuto andare subito dopo, e frequentare invece un anno post-diploma in un’ottima, prestigiosa e costosissima scuola di specializzazione che si chiama Phillips Exeter Academy opportunamente situata nella mia cittadina. E così ho fatto. In apparenza è stato un periodo pieno di soddisfazioni, solo che ero ancora sulla Terra, e le cose andavano sempre meno bene per me sulla Terra in quel periodo, anche se la faccia era guarita e avevo più o meno smesso di avere l’allucinazione della ferita sanguinolenta, a parte alcuni flash davvero brevi in cui con la coda dell’occhio vedevo specchi e cose varie.
Però, sì, tutto sommato le cose andavano sempre peggio per me in quel periodo, anche se a scuola me la cavavo benissimo con il mio programmino post-diploma e tutti dicevano: – Per la miseria, sei davvero uno studente modello, dovresti andare dritto all’università, che aspetti? – A me era chiarissimo che non dovevo andare dritto all’università, ma non potevo mica dirlo a quelli dalla Exeter, perché i motivi per non andarci non c’entravano niente col far quadrare le equazioni a Chimica o interpretare le poesie di Keats a Letteratura. C’entravano col fatto che ero un soldatino pieno di problemi.
A questo punto non è che muoia dalla voglia di fornire un resoconto lungo e sanguinolento di tutte le belle nevrosi che all’incirca in quel periodo cominciarono a spuntarmi dentro al cervello, tipo foruncoli grigi e grinzosi, ma certe cose le dirò. Tanto per cominciare, vomitavo un casino, avevo sempre la nausea, specie la mattina appena sveglio. Ma poteva scattare in ogni momento, bastava solo che ci pensassi; se mi sentivo bene, di punto in bianco pensavo: «Ehi, non ho nemmeno un po’ di nausea». E scattava subito, manco avessi un grosso interruttore di plastica lungo il tubo che collega il cervello alla pancia e all’intestino deboli e infiammati, ed ecco che vomitavo nel piatto della cena o sul banco di scuola o sul sedile della macchina, o nel letto, o dove capitava. Era davvero paradossale per tutti gli altri, e profondamente sgradevole per me, come chiunque abbia avuto davvero problemi di stomaco capirà benissimo. La cosa è andata avanti un pezzo, e io sono dimagrito un casino, il che non era un bene
perché ero già magrissimo e senza un filo di forze. E poi ho dovuto fare un casino di accertamenti allo stomaco che contemplavano squisiti beveroni al bario, farsi appendere a testa in giù per le radiografie e via dicendo, e una volta mi hanno prelevato pure il midollo spinale, che è la cosa più dolorosa che abbia mai fatto in vita mia. Io coi prelievi di midollo ho chiuso per sempre.
Poi c’era quella faccenda di piangere senza motivo, che non era dolorosa ma era molto imbarazzante e anche abbastanza spaventosa perché non riuscivo a controllarla. Succedeva che mi mettevo a piangere senza motivo, dopodiché mi prendeva come la paura di mettermi a piangere o che una volta cominciato a piangere non sarei più riuscito a smettere, e quello stato di paura aveva la gentilezza di azionare un altro interruttore bianco lungo il tubo tra il cervello foruncoloso e gli occhi infiammati, e giù a piangere ancora peggio, come quando spingi uno skate-board senza mai fermarti. Era molto imbarazzante a scuola, e incredibilmente imbarazzante in famiglia, perché i miei pensavano che fosse
colpa loro, che avessero fatto qualcosa di male. Sarebbe stato incredibilmente imbarazzante anche con gli amici, solo che all’epoca in realtà non avevo tutti questi amici. Che era un vantaggio, più o meno. Ma c’erano anche tutti gli altri.
Adottavo tutta una serie di trucchetti per il «problema del pianto». Quand’ero in mezzo agli altri e gli occhi diventavano tutti infiammati e pieni di acqua salata rovente fingevo di starnutire, o ancora più spesso di sbadigliare, essendo due cose che giustificano le lacrime agli occhi. A scuola dovevano pensare che fossi il più grande morto di sonno del mondo. Peccato che sbadigliare non giustifica per davvero il fatto che le lacrime scorrano lungo le guance piovendo in grembo o sul banco o facendo delle grinze bagnate come tante stelline sui fogli dei compiti in classe e roba varia, e poi sono pochi quelli che hanno gli occhi superrossi per aver soltanto sbadigliato. Perciò quei trucchetti non dovevano funzionare benissimo. È strano ma anche ora, qui sul pianeta Trillafon, ripensando a tutto questo sento scattare l’interruttore e sento gli occhi riempirsi più o meno di lacrime, la gola bruciare. Brutta storia. C’era anche il fatto che all’epoca non sopportavo il silenzio, non lo sopportavo davvero. Questo perché quando non c’erano rumori esterni i peletti dei miei timpani o che so io producevano un rumore tutto loro, per tenersi in allenamento o cose simili. Era come un ronzio forte, scintillante, metallico, sfavillante che chissà perché mi metteva davvero una fifa blu e mi faceva quasi impazzire quando lo sentivo, come una zanzara dentro l’orecchio a letto in una notte d’estate ti fa quasi impazzire quando la senti. Avevo cominciato a cercare il rumore più o meno come una falena cerca la luce. Dormivo con la radio accesa, guardavo una quantità incredibile di televisione a tutto volume, tenevo il fidato Walkman della Sony sempre acceso a scuola e ogni volta che giravo a piedi o in bici (quel Walkman della Sony è stato di gran lunga il miglior regalo di Natale che abbia mai ricevuto).
Certe volte parlavo perfino da solo quando non avevo altri rumori a disposizione, il che doveva sembrare una bella mattana a chi mi sentiva, e immagino che fossi davvero matto fradicio, ma non come immaginavano loro. Non è che pensassi di essere due persone che possono avere un dialogo, o che sentissi le voci da Venere o cose simili. Sapevo di essere un’unica persona, ma quella persona unica era un soldatino pieno di problemi che non sopportava né la sostanza né le implicazioni del rumore prodotto dall’interno della sua testa. Fatto sta che tutta questa roba così piacevole andava avanti mentre me la cavavo bene e rendevo i miei genitori, peraltro preoccupatissimi e niente affatto contenti, felici dal punto di vista scolastico durante tutto l’anno e l’estate successiva, quando lavoravo per il Building and Ground Department di Exeter potando cespugli, piangendo e vomitando senza farmi notare, e nel frattempo preparavo i bagagli e ricevevo miliardi di dollari in vestiti e apparecchiature elettriche dai miei nonni, pronto a
partire per la Brown Univeristy del Rhode Island a settembre.
Mr Film, che era più o meno il mio capo alla «B and G» mi faceva continuamente un indovinello che lui trovava spassosissimo. Diceva: – Di che colore è il mal di pancia? – E vedendo che non rispondevo, diceva: – Brown1! ah, ah, ah! – Lui
rideva, io sorridevo, anche dopo la quattrocentomilionesima volta, perché Mr Film nel complesso era un tipo simpatico, e non si era nemmeno arrabbiato la volta che avevo vomitato nel suo furgone. Gli avevo raccontato che mi ero fatto la cicatrice tagliandomi con un coltello alle superiori, che poi in fondo era vero. Così in autunno vado alla Brown University, che si è rivelata del tutto simile alla «P.G.» di Exeter: doveva essere tanto dura ma in realtà non lo era, perciò avevo tutto il tempo per ottenere buoni risultati e sentirmi dire: «Magnifico» continuando allo stesso tempo a essere nevrotico e strano come pochi, tanto che il mio compagno di stanza, un tipo molto simpatico dell’Illinois che scoppiava di salute, aveva comprensibilmente chiesto una singola e qualche settimana dopo se n’era andato lasciandomi una singola enorme tutta per me. Così nella mia stanza sono rimasti soltanto il povero sottoscritto e nove miliardi di dollari circa in rumorosissimo materiale elettronico.
È stato subito dopo il trasferimento del mio compagno di stanza che è cominciata la Cosa Brutta. La Cosa Brutta è più o meno il motivo per cui non sono più sulla Terra. Il dottor Kablumbus mi ha raccontato, dopo che io gli ho raccontato come meglio potevo della cosa Brutta, che la Cosa Brutta è una «grave depressione
clinica». Sono sicuro che un dottore della Brown mi avrebbe detto più o meno la stessa cosa, ma non ho consultato nessun dottore alla Brown, soprattutto perché avevo paura che se avessi aperto bocca in quel contesto sarebbe venuta fuori roba che mi avrebbe fatto finire dritto in un posto come quello dov’ero finito dopo quella stupida, ridicola faccenda del bagno. Non so davvero se la Cosa Brutta sia davvero depressione. Prima avevo sempre pensato che la depressione fosse come una tristezza davvero profonda, tipo quella che ti prende quando muore il tuo
bravo cagnolino, o quando in Bambi uccidono la madre di Bambi. Pensavo che t’imbronciassi un po’ e magari se eri una femmina versavi qualche lacrimuccia dicendo: – Per la miseria, sono davvero depressa, – ma poi vengono gli amici, se ce li hai, a tirarti su il morale e a rimetterti in sesto e poi al mattino – come un colore sbiadito e dopo un paio di giorni chi se lo ricorda più. La Cosa Brutta – e mi sa che la depressione è questo e nient’altro – è molto diversa, e indescrivibilmente peggio. Mi sa che dovrei dire più o meno indescrivibilmente, perché nell’ultimo paio d’anni ho sentito le persone più disparate cercare di descrivere la «vera» depressione. Uno della televisione con lo scilinguagnolo ha
detto che secondo certi è come sott’acqua, sotto una massa d’acqua che non ha superficie, almeno per te, che qualunque direzione prendi trovi soltanto altra acqua, niente aria fresca né libertà di movimento, solo restrizioni e soffocamento, e niente luce.
(Non so quanto sia azzeccato dire che è come essere sott’acqua, ma provate a immaginare il momento in cui vi rendete conto, in cui improvvisamente capite
che per voi non c’è superficie, che potete nuotare finché vi pare tanto lì dentro ci affogate; immaginate come vi sentireste in quel preciso istante, come Cartesio all’inizio della sua seconda cosa, poi immaginate quella sensazione in tutta la sua piacevolissima intensità soffocante protrarsi per ore, giorni, mesi… forse questo è più azzeccato). Una poetessa davvero meravigliosa di nome Sylvia Plath, che purtroppo non è più in vita, diceva che è come stare sotto una campana di vetro a cui hanno risucchiato tutta l’aria, e tu non puoi respirare nemmeno un briciolo di aria fresca (e immaginate il momento in cui i vostri movimenti sono invisibilmente impediti dal vetro e voi capite di essere sotto vetro…) Certi dicono che è come avere sempre davanti e sotto un enorme buco nero senza fondo, un buco nero, nerissimo, con dentro qualche spunzone, magari, e tu fai parte di quel buco, e cadi anche quando rimani dove sei (… magari quando capisci che il buco sei tu, e nient’altro…)
Io non ho uno scilinguagnolo incredibile, ma voglio raccontarvi com’è secondo me la Cosa Brutta. Per me è come una nausea completa, totale, assoluta. Cercherò di spiegarmi meglio. Immaginate di avere una nausea davvero tremenda che parte dallo stomaco. Quasi tutti hanno avuto una nausea davvero tremenda, perciò tutti sanno come ci si sente: è tutt’altro che divertente. OK. OK. Ma quella è una sensazione circoscritta: si accentra grossomodo intorno allo stomaco. Immaginate che tutto il corpo abbia la nausea: i piedi, i grossi muscoli delle gambe, le clavicole, la testa, i capelli, ogni cosa, tutto nauseato come uno stomaco in subbuglio. Poi, se ci riuscite, vi pregherei di immaginare la stessa sensazione ancora più diffusa e totale. Immaginate che ogni cellula del vostro corpo, ogni singola cellula del vostro corpo stia male come quello stomaco nauseato. E non solo le cellule, ma anche gli e.coli e i lactobacilli, i mitocondri, i corpi basali, tutti con la nausea a ribollire infiammati come larve nel collo, nel cervello, ovunque, dappertutto, in ogni cosa. E tutti con una nausea da morire. Ora immaginate che ogni singolo atomo di ogni singola cellula del corpo abbia quella stessa nausea, una nausea insopportabile. E ogni protone e neutrone di ogni atomo… gonfio e pulsante, malaticcio, nauseato, senza speranza di vomitare per liberarsi da quella sensazione. Ogni elettrone ha la nausea, perde l’equilibrio e sbarella negli orbitali da luna park inondati da un turbinio screziato di gas velenosi gialli e viola, tutto stordito e sbarellante. Quark e neutrini fuori di testa che schizzano nauseati
dappertutto, impazziti. Immaginate questo, immaginate una nausea diffusa capillarmente in ogni vostro minimo frammento, perfino nei frammenti dei frammenti. Di modo che la vostra essenza, la vostra… quintessenza è caratterizzata unicamente dalla nausea; voi e la nausea siete, come si dice, «una cosa sola».
Ecco pressappoco cos’è in sostanza la Cosa Brutta. Tutto in voi è nauseato e paradossale. E siccome l’unica conoscenza che si ha del mondo intero passa attraverso le varie parti del corpo – tipo gli organi sensoriali, la mente, ecc. – e siccome queste parti hanno una nausea da morire, il mondo intero che voi
percepite, conoscete e abitate vi arriva filtrato da questa brutta nausea e diventa brutto. E tutto diventa brutto in voi, tutto il bello esce dal mondo come l’aria esce da un pallone rotto. Di questo mondo conoscete solo mefitiche puzze di marcio, visioni tristi e paradossali dai lividi colori pastello, suoni aspri o di una tristezza mortale, situazioni insopportabili e indefinite disposte in un continuum senza
fine… Idee incredibilmente stupide, disastrose. E succede proprio come quando ti viene la nausea e sotto sotto hai paura che non passerà mai: la Cosa Brutta ti spaventa allo stesso modo, solo peggio, perché la paura stessa è filtrata dalla brutta malattia e diventa più grande, peggiore e famelica di quando è cominciata. Ti squarcia, si insinua e ti si agita dentro. Perché la Cosa Brutta attacca non solo te facendoti sentire male e mettendoti fuori uso, ma attacca in special modo, fa sentire male e mette fuori uso proprio le cose che ti servono a combattere la Cosa
Brutta, a sentirti magari meglio, a restare vivo.
Non è facile capirlo, ma è davvero così. Immaginate una malattia davvero dolorosa che, per dire, colpisca le gambe e la gola provocando dolori davvero fortissimi, paralisi e sofferenza di tutte le zone circostanti. Come se non fosse già abbastanza brutta di per sé, questa malattia è anche indefinita; non riuscite a fare niente per contrastarla. Le gambe sono paralizzate e fanno malissimo… ma non riuscite a correre a cercare aiuto per quelle povere gambe, perché quelle gambe vi fanno troppo male per permettervi di correre. La gola vi brucia da morire
manco stesse per esplodere… ma non riuscite a chiamare un dottore o a chiedere aiuto, perché la gola vi fa troppo male per riuscirci. È così che funziona la Cosa Brutta: è particolarmente brava ad aggredire i vostri meccanismi difensivi. Il modo per combattere o sfuggire la Cosa Brutta sta chiaramente nel pensare in modo diverso, nel ragionare e discutere con voi stessi, giusto per cambiare il vostro modo di percepire, sentire e elaborare le cose. Ma vi serve la mente per farlo, vi servono le cellule cerebrali e i loro bravi atomi, le facoltà mentali e compagnia bella, vi serve il vostro io, ed è proprio quello che la Cosa Brutta ha fatto ammalare troppo perché funzioni a dovere. Ha fatto ammalare proprio quello. Vi ha fatto ammalare in modo da non permettervi di guarire. E voi cominciate a pensare a questa situazione veramente atroce e vi dite: – Mannaggia, come cavolo è riuscita la Cosa Brutta a fare questo? – Ci pensate su, ci pensate davvero bene perché è nel vostro interesse, e poi tutt’a un tratto avete come un’intuizione… la Cosa Brutta riesce a farvi questo perché voi siete la Cosa Brutta! La Cosa Brutta siete voi. Nient’altro: nessuna infezione batteriologica né colpi di spranga o di martello in testa quando eravate piccoli, né scuse d’altro genere; voi siete la malattia. La malattia vi «definisce», specie dopo che è passato qualche tempo.
Vi rendete conto di tutto questo. Ed è allora, mi sa, che se avete lo scilinguagnolo vi rendete conto che l’acqua non ha superficie, oppure sbattete il muso contro il vetro della campana rendendovi conto di essere in trappola, oppure guardate il buco nero e vedete che ha la vostra faccia. È in quel preciso istante che la Cosa Brutta vi divora, o meglio, che voi divorate voi stessi. Che vi uccidete. Facciamo tante storie quando chi ha una «grave depressione» si suicida; diciamo: – Per la miseria, dobbiamo fare qualcosa per impedire che si suicidino! – Errore. Perché,
vedete, tutte quelle persone a quel punto si sono già uccise, nel senso che conta per davvero. Quando scolano interi armadietti di medicine, schiacciano un pisolino in garage o che so io, si sono già uccisi da un pezzo. Quando «si suicidano» si dimostrano semplicemente coerenti. Danno semplicemente forma esteriore a un fatto la cui sostanza in loro esiste già da molto tempo. Una volta che ti rendi conto di quello che sta succedendo, il fatto dell’autodistruzione esiste sotto tutti gli aspetti pratici. Rimane ben poco da fare in una situazione simile, a parte «formalizzarla», altrimenti, se non è quello che volete, c’è sempre la TEC o un viaggio che dalla Terra vi porta su altro pianeta. Ma ho detto più di quanto volevo sulla Cosa Brutta.
Ancora adesso, se ci penso un pochino su, diventando introspettivo, la sento tendere la mano verso di me, cercare di incasinarmi gli elettroni. Ma io non sono più sulla Terra. Sono riuscito a finire il primo semestre alla Brown University, rimediando pure un premio come studente modello al corso introduttivo di Economia, duecento dollari, che ho subito speso in marijuana, perché fumare marijuana tiene a bada la nausea e non ti fa vomitare. È vero: la danno ai malati di cancro che fanno la chemioterapia, certe volte. Io avevo cominciato a fumarne tantissima durante l’anno di specializzazione alla «P.G.» per non vomitare, e aveva funzionato un casino di volte. Alla nausea dei miei atomi faceva il solletico, però. La Cosa Brutta si faceva certe risate. Ero un soldatino strapieno di problemi alla fine del semestre. Rimpiangevo i giorni felici in cui mi sanguinava la faccia.
A dicembre io e la Cosa Brutta montiamo su un autobus per andare a trascorrere le vacanze natalizie nel New Hampshire. Era tutto molto allegro. Peccato che uscendo da Providence, Rhode Island, l’autista non ha guardato bene prima di svoltare a sinistra e un pickup che veniva da sinistra si è schiantato contro l’autobus, ha sfondato la fiancata anteriore sinistra e ha sbalzato l’autista dal posto di guida spedendolo dove c’erano le scale per salire e scendere dall’autobus, e quello si è rotto il braccio e secondo me pure la gamba e si è fatto un gran brutto taglio alla testa. Così ci è toccato fermarci, aspettare l’ambulanza per l’autista e un altro autobus per noi. L’autista era incredibilmente sconvolto. Era sicuro che ci avrebbe rimesso il posto, perché s’era incasinato con quella svolta a sinistra e aveva provocato l’incidente, e anche perché non aveva la cintura di sicurezza – prova ne sia che era stato sbalzato dal posto di guida finendo sulle scale, cosa che avevano visto tutti e che tutti avrebbero detto di aver visto – che è contro la legge più o meno in tutti gli Stati dell’Unione se sei un autista di autobus.
Per poco non si metteva a piangere, e io pure, perché diceva di avere una settantina di figli e che quel lavoro gli serviva davvero, mentre ora l’avrebbero licenziato. Un paio di passeggeri avevano cercato di rasserenarlo e di farlo stare buono, senza nemmeno avvicinarsi, comprensibilmente, al sottoscritto. Eravamo solo io e la Cosa Brutta. Alla fine l’autista dell’autobus è più o meno svenuto per via delle ossa rotte e del taglio, l’ambulanza è arrivata e gli hanno messo addosso una coperta color ruggine. Dal tramonto è spuntato un altro autobus e anche una specie di dirigente degli autobus, che si è davvero arrabbiato quando alcuni dei passeggeri incredibilmente solerti gli hanno raccontato com’era andata. Sapevo che l’autista probabilmente avrebbe perso il posto, proprio come temeva. Mi dispiaceva in modo incredibile per lui, e naturalmente la Cosa Brutta è stata così gentile da filtrare quella tristezza e da peggiorarla un casino. Era strano e irrazionale ma tutt’a un tratto ho sentito fortissimamente che l’autista ero davvero io. Mi sentivo davvero così. Perciò mi sentivo come doveva sentirsi lui, ed era orribile. Non solo mi dispiaceva per lui, mi dispiaceva come a lui, o cose simili. Tutto grazie alla Cosa Brutta. A un tratto dovevo andare da qualche parte, davvero in fretta, così sono andato dove c’era la barella dell’autista sull’ambulanza aperta e sono entrato a dargli un’occhiata, lì. Aveva un cartellino di identificazione della compagnia dei trasporti con la sua foto, ma si vedeva davvero poco perché era coperto dalla striscia del sangue che gli colava dalla testa. Ho preso il centinaio di dollari che avevo e una bustina di marijuana «sensimilla» e li ho infilati sotto la coperta color ruggine per aiutarlo a sfamare tutti quei figli e a combattere nausea e vomito, poi me ne sono riandato davvero in fretta, ho preso le mie cose e sono salito sull’altro autobus. È stato solo dopo, quanto sarà, una mezz’ora, in notturna, in autostrada, che mi sono reso conto che trovando quella marijuana vicino all’autista avrebbero pensato che magari ce l’aveva fin dall’inizio e l’avrebbero licenziato davvero, e magari spedito pure in prigione. Era come averlo incastrato, ucciso, solo che lui era anche me, ho pensato, e questo confondeva davvero le acque. Era come se avessi ucciso simbolicamente me stesso, perché sentivo che in un senso profondo lui era me.
Credo di non essermi mai sentito male come in quel momento, prelievo di midollo a parte, ed era completamente diverso. Il dottor Kablumbus dice che succede così quando la Cosa Brutta mi prende davvero per le palle. Parole testuali. Mi dispiace davvero per quello che ho fatto e per quello che la Cosa Brutta ha fatto all’autista dell’autobus. Intendevo davvero sinceramente soltanto aiutarlo, come se lui fosse me. E l’ho come ammazzato, invece. Sono arrivato a casa e i miei hanno detto: – Ehi, ciao, ti vogliamo bene, complimenti, – e io ho detto: – Ciao, ciao, grazie, grazie –. Non ero esattamente nello «spirito vacanziero», devo confessare, per via della Cosa Brutta, e per via dell’autista dell’autobus, e per via del fatto che eravamo tutti e tre la stessa cosa sotto gli aspetti che contavano. La cosa estremamente ridicola è successa la vigilia di Natale. È stata stupidissima, ma credo anche quasi inevitabile visto tutto quello che succedeva all’epoca. Si potrebbe semplicemente dire che mi ero già più o meno ucciso dentro durante il semestre autunnale, e mi ero ucciso simbolicamente rispetto all’autista dell’autobus, e adesso da bravo soldatino dovevo «formalizzare» il tutto, renderlo chiaro, squadrato ed esteriore; dovevo piegare gli angoli e creare angoli d’ospedale. Mentre mamma, papà, le mie sorelle, nonna, nonnino, zio Michael e zia Sally erano di sotto a bere cocktail e ad ascoltare il disco bellissimo e mortalmente triste che parla di un bambino segnato e di tre re la notte di Natale, io mi sono svestito e sono entrato nella vasca piena d’acqua calda tirandomi appresso una cosa come tremila apparecchiature elettriche dentro la vasca. Peccato che a completare la perfetta idiozia dell’intero episodio c’era il fatto che nel mio stato confusionale non avessi oculatamente inserito la spina di quasi tutte le apparecchiature. Solo un paio erano davvero «vive», ma sono bastate a far saltare la corrente in tutta la casa, a fare un gran fracasso e a darmi una scossa niente male, tanto che hanno dovuto portarmi in ospedale per le cure fisiche.
Non so se dovrei dirlo, ma la scossa davvero peggiore se la sono beccata i miei organi riproduttivi. Mi sa che erano come in parte fuori dall’acqua, formando una specie di ponte elettrico tra l’acqua, il corpo e l’aria. Fatto sta che la scossa è stata dolorosissima e a quanto dicono le conseguenze si faranno sentire di più se mai deciderò di mettere su famiglia. Non che la cosa mi preoccupi più di tanto. La mia famiglia si è preoccupata per quello che è successo, però; erano a dir poco scontenti. Io ero come mezzo svenuto o addormentato, ma ricordo di aver sentito l’acqua come sfrigolare e loro che entravano dicendo: – Santo Iddio, ehi! – Ricordo che se la sono vista brutta perché il bagno era buio pesto, c’ero solo io a fare un po’ di luce. Hanno dovuto tirarmi fuori dalla vasca con grande cautela perché non volevano prendere la scossa anche loro. Li capisco benissimo. Dopo un paio di giorni d’ospedale è diventato chiaro che ragazzo e organi riproduttivi sarebbero sopravvissuti. Ho fatto il mio piccolo trasloco verticale su al Piano Bianco.
Riguardo al Piano Bianco – il Piano del Soldatino Pieno di Problemi – non ho davvero nessuna voglia di addentrarmi in una quantità gigantesca di particolari. Ma alcune cose le dirò. Il Piano Bianco era bianco, ovviamente, ma un bianco non di quelli accecanti, dannosi, come nel reparto ustionati. Era più un bianco delicato, quasi grigiognolo, molto tenue e lenitivo. Ora che ci penso, quasi tutto quello che c’era al Piano Bianco era delicato, sottotono e… dimesso, come se si sforzassero di non suscitare impressioni grandi o forti negli ospiti – in termini mentali o sensoriali – perché sapevano che ogni singola vera impressione sulle
persone che avevano bisogno di andare al Piano Bianco forse sarebbe stata una brutta impressione, una volta filtrata dalla Cosa Brutta. Il Piano Bianco aveva le pareti di un bianco delicato e la moquette di un marroncino delicato, e le finestre erano come opache e molto spesse. Tutti gli angoli acuminati di cose tipo cassettiere, comodini e porte erano smussati, scartavetrati e levigati, Perciò sembrava tutto un po’ strano. Che io sappia nessuno ha mai cercato di uccidersi con l’angolo acuminato di una porta, ma immagino che sia meglio essere pronti a ogni evenienza. Alla luce di questo, ne sono certo, si assicuravano che tutto quello che ti davano da mangiare fosse mangiabile senza forchetta né coltello. Il budino andava per la maggiore al Piano Bianco. Dovevo indossare una certa cosa durante la mia permanenza al Piano Bianco, ma non ero certo legato al letto, a differenza di certi miei colleghi. La cosa che dovevo indossare non era una camicia di forza o cose simili, ma era decisamente più stretta di una normale vestaglia, e avevo come la sensazione che l’avrebbero stretta ancora di più se fosse stato nel mio interesse. Quando qualcuno voleva fumare una sigaretta di tabacco, un’infermiera psichiatrica doveva accenderla, perché a nessun ospite del Piano Bianco era consentito avere fiammiferi. Ricordo anche che il Piano Bianco aveva un odore molto più buono del resto dell’ospedale, femminile e un po’ onirico, come l’etere.
Il dottor Kablumbus voleva sapere che succedeva, e io gliel’ho raccontato in sei minuti circa. Ero un po’ troppo stanco e a pezzi perché all’epoca la Cosa Brutta era super-brutta, ma avevo un discreto scilinguagnolo. Il dottor Kablumbus mi piaceva abbastanza, anche se succhiava di continuo certe caramelle davvero puzzolenti – lo aiutavano a smettere di fumare, a quanto pare – e dava un po’ sui
nervi perché cercava di parlare come un ragazzino – dicendo un mucchio di parolacce, ecc. – quando si vedeva benissimo che non era un ragazzino. Era molto comprensivo, però, ed era incredibilmente bello vedere un dottore che non voleva trafficare sempre con i miei organi riproduttivi. Dopo aver inquadrato la situazione, il dottor Kablumbus ha esposto le alternative prima a me, poi a me e ai miei genitori. Dopo che abbiamo scartato tutti la terapia con le convulsioni elettriche, il dottor Kablumbus si è preparato a farmi lasciare la Terra per mezzo degli antidepressivi. Prima di aggiungere qualcosa sul dottor Kablumbus o sul mio viaggetto, voglio raccontare brevissimamente l’incontro con una collega del Piano Bianco che purtroppo non è più in vita, non per colpa sua ma per colpa del suo ragazzo che si è messo al volante ubriaco uccidendola in un incidente d’auto. Incontrare e conoscere quella ragazza, che si chiama May, nel ricordo spicca ancora come più o meno l’ultima cosa bella che mi sia successa sulla Terra. Ho conosciuto May un giorno nella sala della TV per via del fatto che lei aveva la dolcevita al rovescio. Ricordo che davano Simpatiche canaglie e io ho visto, lì, il retro di una testa bionda appartenente a chissà quale sesso perché i capelli erano davvero corti e spettinati. E sotto quella testa c’erano la targhetta con la taglia e la composizione del tessuto e la cucitura bianca indice del fatto che una dolcevita è al rovescio. Così ho detto: – Scusa, lo sapevi che hai la dolcevita al rovescio? – E la persona, che era May, si è girata e ha detto: – Sì, lo sapevo –. Quando si è girata non ho potuto fare a meno di notare che purtroppo era molto carina. Non mi ero accorto che era una ragazza carina, altrimenti è quasi sicuro che avrei fatto scena muta. Ho sempre cercato di evitare di parlare con le ragazze carine, perché le ragazze carine hanno un effetto deleterio su di me nel senso che ogni parte del mio cervello si chiude fuorché la parte che dice cose di una stupidità incredibile e la parte consapevole che dico cose di una stupidità incredibile. Ma a quel punto ero ancora troppo stanco e a pezzi per preoccuparmi più di tanto, e mi stavo preparando a lasciare la Terra, così ho detto quello che pensavo, anche se May era carina in modo allarmante. Ho detto: – Perché la porti al rovescio? – riferendomi alla maglia. E May ha detto: – Perché non mi piace che l’etichetta mi graffi il collo –. Io, comprensibilmente, ho detto: – No, dico, perché non tagli l’etichetta? – Al che ricordo che May ha risposto: – Perché non riconoscerei il davanti della maglia. – Eh? – ho detto, facendo lo spiritoso. May ha detto: – Non ha tasche, scritte né altro. Il davanti è uguale e identico al didietro. Con la differenza che il didietro ha l’etichetta. Perciò non li distinguerei –. Così ho detto: – No, dico, se il davanti è uguale e identico al didietro, che differenza fa da che parte la indossi? –
A quel punto May mi ha guardato serissima per una cosa come undici anni, quindi ha detto: – Per me fa differenza –. Poi ha sfoderato un grosso sorriso di una bellezza mortale e mi ha chiesto con estremo tatto come mi fossi fatto quella cicatrice. Io le ho detto che avevo una fastidiosa etichetta che mi spuntava dalla guancia… Così più o meno per caso io e May siamo diventati amici, e abbiamo parlato un po’. Lei voleva guadagnarsi da vivere scrivendo storie inventate. Io ho detto che non sapevo fosse possibile. Il suo fidanzato l’ha uccisa con quella sua macchina ubriaca appena dieci giorni fa. Ieri ho cercato di telefonare ai genitori di May solo per dire che mi dispiaceva incredibilmente, ma la segreteria mi ha
informato che il signore e la signora Aculpa erano fuori città per un periodo imprecisato. Li capisco, perché sono «fuori città» anch’io. Il dottor Kablumbus sapeva un casino di cose sulla psicofarmaceutica. Ha detto a me e ai miei genitori che in linea di massima ci sono due tipi di antidepressivi: quelli triciclici e gli inibitori M.A.O. (non ricordo cosa significano esattamente le iniziali, ma qualche idea sull’argomento ce l’avrei). A quanto pare funzionano bene tutti e due, ma il signor Kablumbus ha detto che con gli inibitori M.A.O. non puoi mangiare e bere certe cose, come la birra, e certi tipi di salsiccia. Mia madre aveva paura che me lo dimenticassi e mi ritrovassi magari a mangiare e bere alcune di quelle cose, così ci siamo consultati e abbiamo deciso per i triciclici. Secondo il dottor Kablumbus è stata un’ottima scelta. Come in un lungo viaggio che non ti porta subito a destinazione, con gli antidepressivi devi «salire» per gradi; cioè, cominci con una dosettina minuscola e procedi verso una dose intera per permettere ai livelli del sangue di abituarsi e compagnia bella. Perciò in un certo senso il mio viaggio verso il pianeta Trillafon ha richiesto più di una settimana.
In un altro senso, però, è stato come lasciare la Terra e salire sul pianeta Trillafon fin dalla mattina in cui ho iniziato. La grande differenza fra la Terra e il pianeta
Trillafon è, ovviamente, la distanza: il pianeta Trillafon è lontano, lontanissimo. Ma ci sono altre differenze che sono come più immediate e intrinseche. Secondo me l’aria sul pianeta Trillafon non dev’essere tanto ricca di ossigeno, nutrimento e quelle cose lì, perché ti stanchi molto di più molto più in fretta, lì. Ti basta spalare la neve dal marciapiede, correre per prendere l’autobus, fare un paio di tiri a canestro o scalare un’altura da ridiscendere con lo slittino per sentirti molto, molto stanco. Un’altra scocciatura è che il pianeta Trillafon è appena appena inclinato sull’asse, perciò quando guardi il suolo non è tanto in piano; sbanda un po’ a dritta. Ti ci abitui quasi subito, però, come quando trovi la
stabilità in barca. Un’altra cosa è che il pianeta Trillafon è un pianeta molto sonnolento. Devi prendere gli antidepressivi di sera, e ti conviene assicurarti che ci sia un letto nei paraggi, perché dopo averli presi l’ora di andare a letto arriva incredibilmente presto. Anche durante il giorno il residente del pianeta Trillafon è un soldatino assonnato. Assonnato e stanco, ma troppo lontano per essere superpieno di problemi.
Questo non ha niente a che vedere col ridicolissimo incidente della vasca da bagno la vigila di Natale, ma c’è un che di elettrico riguardo al pianeta Trillafon. Su Trillafon non ho il solito problema della testa che trasforma il silenzio in uno sfavillante scintillio, perché l’antidepressivo triciclico – «Tofranil» – fa come un rumore elettrico tutto suo che soffoca completamente lo scintillio. Il nuovo rumore non è che sia piacevolissimo, ma è meglio dei rumori vecchi, che davvero non sopportavo. Il nuovo rumore sul mio pianeta è una specie di trillo elettrico ad alta tensione. Ecco perché da quasi un anno sbaglio puntualmente il nome del mio antidepressivo se non guardo bene la boccetta: l’ho chiamato «Trillafon»
anziché «Trofanil», perché «Trillafon» è più trillante e elettrico, e somiglia più a com’è abitarci. Ma l’elettricità del pianeta Trillafon non è solo un rumore. Immagino che ad avere lo scilinguagnolo di May direi che «il pianeta Trillafon è caratterizzato semplicemente da uno stile di vita più elettrico». Il che è vero, più o meno. Certe volte sul pianeta Trillafon ti si rizzano i peli sulle braccia, senti un gelo correre lungo i grossi muscoli delle gambe e i denti vibrare quando chiudi la bocca, come se fossi sotto un cavo dell’alta tensione, o vicino a un trasformatore. Certe volte scoppietti senza motivo e vedi le cose blu. E perfino il suono della tua voce cerebrale quando pensi pensieri fra te e te sul pianeta Trillafon è diverso da com’era sulla Terra; ora sembra venire come da un altoparlante collegato a te
solo da chilometri e chilometri di filo, come se fossi tornato ad ascoltare il vecchio programma radiofonico «Golden Days of Radio».
È difficilissimo perfino leggere sul pianeta Trillafon, ma non è un grande inconveniente, perché tanto ormai non leggo quasi più, se si esclude il «Newsweek», di cui mi hanno regalato l’abbonamento per il mio compleanno. Ho ventun’anni. May aveva diciassette anni. Ora certe volte mi prendo come in giro dicendo che dovrei passare a un inibitore M.A.O. Le iniziali di May sono M.A., e ora quando penso a lei divento così triste che faccio: – O! – In un certo senso, mi piacerebbe comprensibilmente inibire il «M. A.: O.» Sono sicuro che il dottor Kablumbus converrebbe che è nel mio interesse. Se l’autista dell’autobus che ho più o meno ucciso avesse le iniziali M.A., ci sarebbe davvero da ridere. Le comunicazioni tra la Terra e il pianeta Trillafon sono difficili, ma non costano niente, perciò è sicuro che probabilmente telefonerò agli Aculpa per dire quanto mi dispiace per la loro figlia, aggiungendo magari che più o meno l’amavo. La grande domanda è se sul pianeta Trillafon ci sia la Cosa Brutta. Non so se ci sia o no. Magari non se la passa troppo bene in un’atmosfera più rarefatta e meno nutriente. Io non me la passo bene per niente, sotto certi aspetti. A volte, quando non ci penso, penso di essere ormai completamente sfuggito alla Cosa Brutta, e che sarò in grado di condurre una Vita Normale e Produttiva come avvocato o roba del genere qui sul pianeta Trillafon, non appena riuscirò di nuovo a leggere.
Essere lontani aiuta rispetto alla Cosa Brutta. Solo che è sommamente idiota se si pensa a quello che dicevo prima riguardo al fatto che la Cosa Brutta è davvero

lunedì 2 settembre 2019

Quanti rimpatri e chi sono?

http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/documentazione/statistica/cruscotto-statistico-giornaliere


domenica 18 agosto 2019

Non aspettavano altro-Racconto tratto da Sessanta racconti di Dino Buzzati

Non aspettavano altro Era caldo. Dopo il lungo viaggio sempre in piedi nel corridoio, Antonio e Anna
giunsero stanchissimi alla grande città dove avrebbero dovuto passare la notte. Fino al mattino successivo non
c’erano treni per proseguire. Dalla stazione uscirono sul piazzale rovente. Con un braccio lui portava la valigetta
comune, con l’altra sosteneva Anna la quale non ne poteva più, i piedi gonfi per la stanchezza. Era caldo.
Adesso, trovare subito un albergo per riposare. Di alberghi ce n’era una quantità, nei dintorni della stazione. E si
sarebbero detti tutti vuoti, con le persiane chiuse, nessuna automobile ferma davanti, deserti gli anditi d’ingresso.
Loro ne scelsero occhio uno dall’apparenza modesta. Si chiamava “Hotel Strigoni”. Nel vestibolo non un’anima viva. Tutto
assopito e immobile. Poi scorsero dietro il banco il portiere che dormiva, insaccato in una poltrona. «Scusi»
disse Antonio senza alzare la voce. Lui aprì con fatica un occhio, lentamente si levò in piedi, divenne nero ed
altissimo. Prima che Antonio parlasse, il portiere scosse la testa; e fissava la coppia come si guardano i nemici.
Indicando con l’indice la pianta dell’albergo sul piano del banco. «Siamo completi» annunciò «mi dispiace non
c’è neanche un buco.» Pareva che pronunciasse con fastidio una formula ripetuta senza interruzione per anni e
anni. Neppure gli altri alberghi avevano posto. E pure gli atri di ingresso erano vuoti, nessuno entrava o usciva,
né si udivano rumori umani dalla parte delle scale. I portieri per lo più dormicchiavano, erano sudaticci e tristi.
Anche essi indicavano la pianta delle stanze a dimostrare che non restava
libero neanche uno sgabuzzino. E ugualmente fissavano i due con sospetto. Vagarono così per circa un’ora nelle
strade torride, diventando sempre più stanchi. Finalmente, al settimo o ottavo portiere che rispondeva di no,
Antonio chiese se almeno avessero potuto fare un bagno. «Un bagno?» fece l’altro. «Loro cercano un bagno?
Ma perché non vanno all’albergo diurno? È qui vicino, a due passi.» E spiegò la strada. Andarono. Anna faceva
ormai una faccia dura e non parlava, segno che era esasperata. Ecco il grande cartello policromo all’entrata del
diurno, la scala che scendeva nel sotterraneo. Anche qui non c’era anima viva. Ma, come furono discesi, lo
scoraggiamento li prese. Dinanzi ai due sportelli con soprascritto “Bagni” c’erano lunghe code; e altra gente, che
evidentemente aveva già acquistato lo scontrino, aspettava, seduta intorno, bisbigliando. Uno sportello era per
gli uomini, l’altro per le
donne. «Dio mio, non ne posso più» disse Anna. E lui: «Coraggio, adesso ci rinfreschiamo un poco. E poi, se
Dio vuole, troveremo un albergo». Così entrambi si misero in coda. Pure laggiù, a motivo del vapore caldo che
usciva dal corridoio dei bagni, l’aria era umida e opprimente. Intanto Antonio si accorse che la gente seduta li
esaminava, fissando specialmente Anna: gettavano un’occhiata e poi bisbigliavano tra loro; senza malizia, si
sarebbe detto, perché nessuno sorrideva. Anna fece più presto di lui. Dopo circa mezz’ora la vide, nella coda di
fianco, sopravanzarlo e avvicinarsi allo sportello. Quando fu il suo turno, la ragazza porse un biglietto da cento
lire. A questo punto Antonio fu distratto da un sommesso battibecco tra colui che lo precedeva e l’impiegato allo
sportello. Il commesso non disponeva di spiccioli, l’altro non aveva che biglietti da mille. «La prego, si tiri in
disparte, lasci passare gli altri…» Discutevano sottovoce, come temessero
farsi udire. Infine l’uomo si trasse da un lato, brontolando, e fece posto ad Antonio. Solo allora egli si accorse
che Anna a sua volta stava discutendo allo sportello accanto. Si era fatta rossa in volto e affannata, cercava con
ansia qualche cosa nella borsetta. «Hai perso i soldi?» gli chiese lui. «No, ma qui vogliono i documenti. E non
riesco più a trovare la tessera!» «Su allora, signore» sussurrò l’impiegato, esortando Antonio. «Un bagno?…
Ottanta…» «E occorre un documento?» Il commesso ebbe un vago sorriso. «Spero bene…» rispose con chissà
quali sottintesi. Antonio trasse la carta di identità di cui l’altro ricopiò i dati su un registro. Nel frattempo, a
causa di Anna, la coda delle donne si era inceppata e ne usciva un brusio di protesta. Finché dallo sportello
venne una voce sgradevole di donna: «Signorina, se non ha il documento, si levi per favore!…». «Ma io sto
male, ho bisogno…» insisteva Anna, sorridendo con fatica, per impietosirla. «Qui c’è un signore che mi
conosce e ha i documenti…» La commessa tagliò corto: «Non ho tempo da perdere… Mi faccia il piacere…».
Antonio trasse via dolcemente la ragazza per un braccio. Allora lei perse la calma: «Che modi!» gridò
all’impiegata. «Neanche se si fosse dei delinquenti!» L’alta voce echeggiò nella quiete con scandalo. Tutti si
voltarono stupefatti e ripresero a bisbigliare con più foga. «Anche questa doveva succedere!» diceva Antonio.
«E adesso come fai?» «Che ne so?» fece Anna sull’orlo del pianto. «Neanche un bagno si può fare in questa
maledetta città… Tu almeno, l’hai preso, lo scontrino?» «Io sì… Ora voglio provare: se potessi andare tu al mio
posto…» Si avvicinarono infatti alla inserviente che riceveva gli scontrini all’ingresso dei bagni, e chiamava,
con voce opaca, i numeri successivi, via via che il turno procedeva. «La prego» disse Antonio supplichevole. «Io
ho già preso lo scontrino ma devo andare… Non potrebbe utilizzarlo la signorina?» «Sì certo» rispose
donna. «Non ha che da andare allo sportello dei reclami e far registrare il documento…» «Senta» intervenne
Anna. «Sia buona… io l’ho smarrita la carta di identità… mi lasci fare il bagno lo stesso… non mi sento bene…
guardi che caviglia…» «Ma io non posso, figliola» fece la inserviente. «Se per caso se ne accorgono, i guai sono
miei, stia pur sicura…» «Andiamo» disse Antonio, esasperato anche lui. «È una caserma, questa.» Gli sguardi
dei presenti erano più che mai concentrati sulla coppia e quando i due giovani si avviarono alla scala per risalire
sulla via, il bisbiglio per un istante tacque. «Oh, andiamo a sederci da qualche parte, te ne supplico» si lamentava
Anna. «Non ce la faccio più a stare in piedi… Guarda un giardino!» La strada sboccava infatti ai margini di un
giardino pubblico che pareva da lontano pressocché deserto. In realtà le panchine completamente in ombra erano
tutte occupate. Si dovettero accontentare di un sedile riparato a metà da un ramo.
Seduta, per prima cosa Anna si slacciò le scarpette. Tutt’intorno crepitavano le cicale; e c’erano polvere e
desolazione. Poco più in là, dinanzi a loro, in uno spiazzo rotondo, essi videro una larga fontana circolare, con
uno zampillo al centro. Di tutto il giardino questo era l’unico posto affollato, sebbene esposto al sole. Donne e
anche uomini fatti sedevano sull’orlo, per lo più con le mani immerse nell’acqua a scopo di refrigerio; mentre
nel mezzo della fontana una torma irrequieta e vociante di bambini seminudi giocava con le barchette.
Sguazzavano felici, si schizzavano a vicenda, qualcuno si immergeva a pancia in giù, col vestito e tutto, senza
badare ai richiami della mamma. Per i flaccidi vapori ristagnanti sulla città – forse venuti dalle circostanti risaie
in putrefazione – i raggi del sole si erano nel frattempo fatti smorti. Ma il caldo sembrava diventare ancora più
pesante. «Guarda… l’acqua!» fece improvvisamente
Anna. «Aspettami un momento…» E lasciando le scarpette, prima che Antonio potesse trattenerla si affrettò
sorridendo alla fontana, chiese “Permesso” a quelli che sedevano sul bordo, lo scavalcò agilmente ed entrò
nell’acqua sollevando un poco le gonne. «Ah, che consolazione!» gridò ad Antonio che, con la valigetta e le
scarpe di lei, si era subito avvicinato. Dall’acqua, dove cercavano conforto, gli sguardi della gente si alzarono a
quella bella ragazza, misurandola. Subito le teste, sonnolente e immote, si animarono, incrociandosi fitti
dialoghi. Poi si alzò, precisa, una voce: «Signorina, torni indietro, per favore, la fontana è riservata ai bambini!»
Era una donna sui quarant’anni, un tipo di massaia, dal volto energico. Ma l’Anna era così contenta di trovarsi
nell’acqua. Tra quel vociare di bambini non udì il richiamo. «Signorina» ripeté la donna più forte. «Guardi che
non si può entrare nella fontana. È riservata ai
bambini.» Altre donne l’approvarono con cenni. Anna si voltò sorpresa, il volto ancora ridente. «Bambini o no»
rispose «ho bisogno di rinfrescarmi un poco, se permette.» Il tono era cordiale, con un accento quasi di
cerimonia che voleva riuscire scherzoso. Poi avanzò verso il centro della fontana, dove l’acqua diventava
progressivamente più profonda. Un’altra donna dall’espressione volpina agitò in alto le mani. «Questa fontana è
dei bambini» gridò. «Ha capito? È dei bambini!» Altre ancora fecero eco: «Fuori dalla fontana! Fuori! È
riservata ai bambini!». Anche i piccoli, che da principio non vi avevano fatto caso, guardarono la ragazza entrata
nell’acqua in mezzo a loro; e interruppero i giochi, come aspettando qualcosa. «Torni indietro! È proibito!
Fuori!» Anna era già quasi sotto lo zampillo, dove i bambini erano più fitti. L’acqua le arrivava alle ginocchia. A
quelle grida si voltò nuovamente e, chissà come, non
vide che cosa erano diventate in pochi istanti le facce delle donne intorno: sudaticce, rosse, tirate dall’ira, con
una piega odiosa agli angoli delle labbra. Non vide, non ebbe paura. «Eh!» rispose, alzando una mano a
esprimere impazienza e noia. Dal bordo della fontana, in tono accomodante, Antonio cercò di evitare un litigio.
«Anna, Anna, torna adesso. Ti sei rinfrescata abbastanza.» Ma lei capì che Antonio si vergognava di lei e
giustificava in certo modo le donne. In risposta scalpitò nell’acqua come una ragazzina. «Sì, sì, ancora un
momento!» Non voleva darla vinta a quelle streghe. Ciàc. Qualcosa di grigio volò sopra l’acqua e subito si vide
una chiazza pesante di sudicio sulla schiena dell’Anna; e scolava giù per la stoffa azzurra a fiori. Chi era stato?
All’improvviso una delle popolane, bella donna alta e robusta, aveva tuffato una mano nel fondo, raccogliendo
un pugno di fango. Poi l’aveva lanciato. Risate e grida si levarono. «Fuori! Fuori della
fontana! Fuori!» Erano anche voci di uomini. La gente, poco prima intorpidita e molle, si era tutta eccitata. Gioia
di umiliare quella ragazza spavalda che dalla faccia e dall’accento si capiva ch’era forestiera. «Vigliacchi!»
gridò Anna, voltandosi d’un balzo. E con un fazzolettino cercava di togliersi di dosso la fanghiglia. Ma lo
scherzo era piaciuto. Un altro schizzo la raggiunse a una spalla, un terzo al collo, all’orlo dell’abito. Era
diventata una gara. «Fuori! Fuori!» gridavano, in una specie di giubilo. Una grande risata si allargò quando un
bel blocco di fango si spiaccicò su un’orecchia di Anna, insozzandole la faccia; gli occhiali da sole volarono via,
scomparendo sott’acqua. Sotto la tempesta, la ragazza cercava di ripararsi, ansimando, e gridava frasi
incomprensibili. Qui Antonio intervenne, facendosi largo. Ma come avviene nei momenti di eccessiva emozione,
pronunciò parole sconnesse: «Per piacere, per piacere» cominciò «lasciate stare! Che cosa vi ha fatto
male, per piacere… Vi dico che… Sentite… Vi consiglio… Anna, Anna, vieni via subito!». Antonio era
forestiero e tutti, là, parlavano in dialetto. Le sue parole ebbero un suono curioso, quasi ridicolo. Proprio al suo
fianco uno si mise a ridere. «Per piacere eh? per piacere?» E gli faceva il verso. Era un giovane sui trent’anni, in
canottiera, dal volto asciutto e furbesco da teppista. Ad Antonio tremarono le labbra. «Cosa c’è? cosa c’è?»
chiese. Nello stesso istante, con la coda dell’occhio, scorse una donna che alzava un braccio, nell’atto di lanciare
ancora fango. Con un balzo lui la afferrò al polso, fermandola; la poltiglia sfuggì dalle dita. «Con le donne eh?
Te la prendi con le donne?» fece il giovanotto in canottiera. «Tu saresti l’amico?» E si fece sotto. «No, eh!»
minacciò, passando una mano rasente alla faccia di Antonio, per provocarlo. Per respingerlo Antonio sferrò un
pugno. Ma era un pugno maldestro, e colpì solo
una spalla di striscio. Il giovane non barcollò neppure. Rideva, sembrava divertirsi moltissimo; e cominciò a
saltellare, tutto proteso in avanti, come fanno i boxeurs, molinando i pugni. «Ecco, per piacere!» Il suo braccio
sinistro si allungò. Lentamente, si sarebbe detto, senza alcun impeto. Eppure Antonio, chissà perché, non riuscì a
evitarlo. Un colpettino dalla parte del fegato, un pugno dato per scherzo, pareva. Ma subito, tirando il fiato, egli
sentì un atroce dolore propagarsi nelle viscere: profondo, cupo, maligno. Gli mancò il respiro. «Per piacere! Per
piacere!» ridacchiò l’altro, facendogli ancora il verso. E allungò l’altro braccio. Il pugno toccò appena,
sembrava. Tuttavia, dopo un attimo, Antonio si piegò in due, gemendo. Poi dal fondo gli salì un senso orrendo di
nausea. Non vide più che una confusione di ombre. Retrocedette fino all’albero più vicino, per appoggiarsi.
Come si riebbe – ed erano passati pochi secondi – alla fontana stava succedendo qualche cosa di nuovo.
Anna non si era ancora ritirata dal centro. Tutta imbrattata di fango, la faccia tesa a una smorfia di affanno, ora
cercava di ripararsi con le mani, ora tentava di schizzare getti d’acqua contro chi la bersagliava. Ma si muoveva
con fatica, come per una grande stanchezza che la avesse sorpresa. Si teneva adesso in mezzo ai bimbi
calcolando che le mamme, per non rischiare di colpirli, avrebbero risparmiato anche lei. «Antonio, Antonio!»
chiamava «guarda come mi han ridotto! Dio come mi han ridotto!» Ripeteva meccanicamente questo grido e
pareva non sapesse dire altro. «Fuori! Fuori! Via di qui! Tieni questa!… Fuori!… Sei sporca? di’, sei sporca?
Fuori! fuori!… E tu Nini vien via… Venite via, bambini!» Così le donne. Infatti i bimbi cominciarono a ritirarsi,
lasciando l’Anna sempre più sola. Ormai, anche se l’Anna si fosse decisa a uscire, non sarebbe stata più una
cosa semplice. La avrebbero lasciata passare? Non si sarebbero accaniti
ancora? Dagli alberi intorno all’improvviso le cicale fecero uno strepito rabbioso e acuto, molto più forte di
prima; come se un terrore fosse passato tra le foglie. Quasi nello stesso istante un bambino di otto-nove anni,
eccitato dalle grida, si avvicinò all’Anna alzando una sua rudimentale barchetta di legno. Fattosi dappresso,
senza una parola, vibrò il giocattolo di forza contro uno stinco della ragazza. La chiglia, rinforzata da una striscia
di latta, urtò nell’osso con un colpo secco. Molte cose succedono in un minuto o due, molto riescono a fare gli
uomini in così piccolo spazio di tempo, anche se è caldo e i marci vapori delle risaie imputridiscono sulla grande
città, rendendo odiosa la vita. Un urlo volle uscire dalla gola della ragazza. Non ne venne fuori che il fiato senza
suono, una specie di sibilo. Nello spasimo lei abbrancò fulmineamente il bimbetto, scaraventandolo lungo
disteso nell’acqua. Per un istante la testa scomparve sotto la superficie. Dal bordo della vasca, rispose un urlo
bestiale,
orribile a udirsi. «Ammazza il mio bambino! Ammazza il mio bambino! Aiuto! aiuto!» Chi sentiva più il caldo?
Il pretesto sembrava meraviglioso. Niente ormai tratteneva il buttare fuori il fondo dell’animo: il sozzo carico di
male che si tiene dentro per anni e nessuno si accorge di avere. Un’agitazione frenetica prese le donne. Quella
dal volto volpino cominciò a saltellare, girando su se stessa, e gridava: «Boia! Boia! Boia!» senza alcun senso.
Qualche decina di metri più in là, con quel dolore al fianco che stentava a spegnersi, Antonio ansimava ancora.
Intravide soltanto la scena e non capiva. Ma ecco si accorse che la gente non parlava più come prima. Fino allora
aveva udito intorno parlare il solito dialetto della città, per lui facilmente comprensibile. Adesso,
inspiegabilmente, le bocche sembravano gonfiarsi, incespicando, e ne uscivano parole diverse, di suono rozzo ed
informe. Come se dai remoti pozzi della città fosse venuta su un’eco turpe e nera. La scellerata voce
dei bassifondi antichi all’improvviso riviveva, carica di delitti? Egli fu tra stranieri, in una terra lontana e
inspiegabile, a lui feroce. In quel mentre le grida s’accrebbero. E la gente scavalcò il bordo della fontana
irrompendo nell’acqua. Ci fu un groviglio. Poi tutti uscirono dalla vasca e per prima apparve l’Anna brutalmente
tenuta da due tre donne che la battevano. Era tutta lorda e scarmigliata, e il volto si era fatto terreo, con dentro un
mortale affanno. Piangeva? singhiozzava? gridava? Le urla coprivano la sua voce, né si poteva capire. Ogni
tanto, sotto i colpi, inciampava, ma le altre la trascinavano via, tenendole le braccia immobilizzate dietro la
schiena. Dove la conducevano? Antonio guardava sgomento. Intorno a lui solo volti imbestialiti, sguardi duri
che lo fissavano. Battendogli il cuore, corse a cercare una guardia. Lo raggiunse, mentre si allontanava, una
nuova esplosione di urla: «Alla gabbia!» gli parve che gridassero. Ma forse aveva capito male. Che cosa poteva
voler dire? Non aveva fatto duecento metri quando scorse due guardie municipali che si avvicinavano, attratte
dal baccano; ma senza fretta. Lui disse, e faticava a parlare: «Presto, per carità, ammazzano una ragazza!
L’hanno presa, la portano via!». I due lo guardarono con stupore, quasi non avessero capito; né accelerarono
minimamente il passo. La turba delle donne che trascinavano Anna veniva però incontro. La ragazza era ormai
un cencio, sembrava inebetita. «Mamma! mamma!» ripeteva senza interruzione. E quelle la sospingevano come
una bestia. Ma subito dietro veniva un altro gruppo, in maggioranza di donne, portando in trionfo un bambino.
Era il bambino che l’Anna aveva gettato nell’acqua. Sua mamma gli accarezzava le gambe. «Tonino, anima
mia!» gridava. «Tesoro! Chelle cnn che lev mmmmmm!» Dopo le prime parole tutto si disfaceva in un mugolio
incomprensibile. Le altre donne facevano di sì con la testa, approvando, battevano
le mani, poi una correva avanti, come non ci fosse un istante da perdere, e pestava i pugni sull’Anna, cercando di
farle più male possibile. Che cosa aspettavano le guardie? A passi incerti si erano affiancate al corteo, facendo
degli strani gesti con le mani. Un ometto gobbo si fece loro incontro. «L’abbiamo presa!» spiegò ansimando.
«Voleva mmegh n bemb ghh mmmm mmmm!» Anche a lui le parole si intorbidivano in quel tenebroso
mugolio. Le guardie impallidirono. Uno dei sorveglianti guardò allora Antonio, come volesse scusarsi. Ma il
volto costernato del giovane parve richiamarlo al dovere. Fece un segno al compagno per dirgli ch’era l’ora.
Quindi afferrò per un braccio una delle donne. «Un momento! Un momento!» intimò con voce malferma. La
donna non si voltò nemmeno. Una forza cupa ed enorme la trascinava via con le altre. Indecifrabili commenti si
intrecciavano. La guardia mollò la presa. I piedi sollevavano nembi di polvere misti a caldi fiati pestilenziali.
Spinsero Anna verso l’antico castello che sorgeva ai margini del giardino. Qui, appesa sopra il ponte levatoio e
sostenuta da una specie di argano, c’era una piccola gabbia in ferro, usata anticamente per mettere i delinquenti
alla gogna. Sembrava, contro il muro giallastro, un gigantesco pipistrello. Ci fu là sotto un ingorgo, entro cui
Anna sparve, poi si vide la gabbia oscillare, calando a sbalzi sulla folla. Le urla divennero trionfali. Pochi
minuti, ed ecco tendersi le funi, e la gabbia risalire con dentro una creatura umana: era vestita d’azzurro, era
inginocchiata, era scossa da singulti, le mani strette alle sbarre. E cento braccia erano tese verso di lei mentre
incomprensibili oggetti volavano per colpirla. Ma, come fu circa un metro sopra le teste, quella specie di antica
gru scricchiolò e cedette, girando l’asta di legno. E la fune, non più trattenuta, cominciò a scorrere, calando la
gabbia di là del ponte, entro il negro fossato del castello. Finché
la macchina con un cigolio, ristette, e la gabbia sbatté, fermandosi, contro la muraglia esterna, quattro metri sotto
il livello del terreno. Ululò la gente, con l’ansia di non restare defraudata. Lasciato il ponte, subito si addensava
lungo la ringhiera di ferro, e tutti si protendevano, guardando giù a picco. Qualcuno si mise a sputare. Dall’alto
si vedevano le esili spalle di Anna sussultare, la testa abbandonata in giù; sui capelli sconvolti piovevano terra,
ghiaia e sudicizia. «Guardala guardala» dicevano. «Non ha mica i cragghh craghh guaaaah!» E alzavano sopra le
spalle Tonino, il quale non capiva e si guardava intorno spaventato. Antonio finalmente riuscì a raggiungere il
parapetto del ponte. Ora poteva vedere la gabbia. «Anna! Anna!» cominciò a chiamare in mezzo a quell’inferno.
«Anna! Anna! Sono io!» Provò tre volte, poi qualcuno lo toccò a una spalla. Era un signore sulla cinquantina
dall’aria squallida e sconsolata; scuoteva il capo. «No, no»
disse, ed Antonio ebbe un moto di gratitudine nell’udire che parlava civilmente. «Per carità, non lo faccia!»
Antonio non comprese. «Che cosa? che cosa?» balbettò. L’altro scosse ancora la testa, portò l’indice alle labbra
per raccomandare silenzio. «Non lo faccia, no… È meglio che lei se ne vada, fa caldo qui, molto caldo…» «Io?
Io?…» chiese, tremando, e vide intorno sei sette facce orrende protendersi per ascoltare. Allora si ritirò dal
parapetto. Già si avvicinava il tramonto, senza fresco né consolazione. Le grida a poco a poco calavano, restò un
mormorio sordo e cupo, la folla lungo la ringhiera del fossato però non si muoveva. Poco discosto, coppie di
guardie ciondolavano su e giù nervosamente. Aspettavano che la gente se ne andasse? Così forse era stato
ordinato dalle autorità per evitare disordini. «Dio mio, che disgrazia» mormorava Antonio,
cercando
dopo parecchi minuti. Ma lontano dalla gabbia. Tentò ugualmente di chiamare: «Anna! Anna!». Lo riscosse un
colpo alla nuca. Era ancora il giovane in canottiera. «Sei qui, sei qui tu?» fece con un sorriso velenoso. «Non ti
bst bst cedìn ghaaaah!» E ruppe in un gorgoglio inarticolato. «È il complice, arrestatelo! Face guisc guisc
ellèh… mmm… mmmm!» gridarono. «Anche lui!» propose uno. Risposero: «Anche lui». Antonio tentò di
allontanarsi. Fu afferrato, lo tennero. Gli legarono i polsi, d’impeto fu rovesciato di là della balaustra, restò
appeso nel fossato, trattenuto a una corda. Così venne strascinato lungo la muraglia, fin sopra la gabbia: qui
mollarono. Cadde di schianto sul fondo, pestando un piede dell’Anna che non si mosse. Sopra di loro tuonò un
muggito selvaggio. La luce del giorno diminuiva. Slegatosi con fatica, Antonio cinse le spalle di lei, sentì sotto
le dita il viscido che la imbrattava.
Anna continuava a tenere giù la testa. «Mamma, mamma» andava ripetendo senza espressione. Poi prese a
tossire e si scuoteva tutta. In alto ancora vociavano. Ormai sazi o con un certo disgusto molti si allontanarono. I
rondoni del crepuscolo stridevano intorno al castello. Da una lontana caserma si udì anche la tromba della
ritirata. Sulla città pulverulenta era scesa infine la sera. Quand’ecco arrivare una vecchia con un grosso involto; e
rideva felice. «Tonino! Tonino!» gridò facendo segno al pacco come se annunciasse una cosa bellissima. La
calca si aprì, lasciandola passare. Come fu presso la balaustra, la vecchia dischiuse il fagotto, mostrando un
piccolo vaso; e l’abbassò affinché tutti potessero vedere dentro. «Tonino, Tonino» ripeteva, facendo cenno al
contenuto. Poi si sporse dalla ringhiera, tese un braccio col vaso sopra la gabbia, calcolò la mira. Disse: «Non se
la meriterebbe neanche!». La materia piombò, con flaccido scroscio, sulle
spalle di Anna. Ma lei non si mosse, non protestò. Si udì soltanto la sua tosse, profonda e secca, che non riusciva
a liberarsi. Nella turba ci fu un attimo di indecisione. Poi, la vecchia sghignazzando, si allargò una risata. Nel
silenzio che seguì, dal muro del fossato a cui la gabbia appoggiava, proprio in corrispondenza, giunse il tremulo
richiamo di un grillo. Cri-cri, pareva si avvicinasse. Attraverso le sbarre, Anna tese adagio verso il grillo una
piccola mano tremante, come chiedendo aiuto.