domenica 18 agosto 2019

Non aspettavano altro-Racconto tratto da Sessanta racconti di Dino Buzzati

Non aspettavano altro Era caldo. Dopo il lungo viaggio sempre in piedi nel corridoio, Antonio e Anna
giunsero stanchissimi alla grande città dove avrebbero dovuto passare la notte. Fino al mattino successivo non
c’erano treni per proseguire. Dalla stazione uscirono sul piazzale rovente. Con un braccio lui portava la valigetta
comune, con l’altra sosteneva Anna la quale non ne poteva più, i piedi gonfi per la stanchezza. Era caldo.
Adesso, trovare subito un albergo per riposare. Di alberghi ce n’era una quantità, nei dintorni della stazione. E si
sarebbero detti tutti vuoti, con le persiane chiuse, nessuna automobile ferma davanti, deserti gli anditi d’ingresso.
Loro ne scelsero occhio uno dall’apparenza modesta. Si chiamava “Hotel Strigoni”. Nel vestibolo non un’anima viva. Tutto
assopito e immobile. Poi scorsero dietro il banco il portiere che dormiva, insaccato in una poltrona. «Scusi»
disse Antonio senza alzare la voce. Lui aprì con fatica un occhio, lentamente si levò in piedi, divenne nero ed
altissimo. Prima che Antonio parlasse, il portiere scosse la testa; e fissava la coppia come si guardano i nemici.
Indicando con l’indice la pianta dell’albergo sul piano del banco. «Siamo completi» annunciò «mi dispiace non
c’è neanche un buco.» Pareva che pronunciasse con fastidio una formula ripetuta senza interruzione per anni e
anni. Neppure gli altri alberghi avevano posto. E pure gli atri di ingresso erano vuoti, nessuno entrava o usciva,
né si udivano rumori umani dalla parte delle scale. I portieri per lo più dormicchiavano, erano sudaticci e tristi.
Anche essi indicavano la pianta delle stanze a dimostrare che non restava
libero neanche uno sgabuzzino. E ugualmente fissavano i due con sospetto. Vagarono così per circa un’ora nelle
strade torride, diventando sempre più stanchi. Finalmente, al settimo o ottavo portiere che rispondeva di no,
Antonio chiese se almeno avessero potuto fare un bagno. «Un bagno?» fece l’altro. «Loro cercano un bagno?
Ma perché non vanno all’albergo diurno? È qui vicino, a due passi.» E spiegò la strada. Andarono. Anna faceva
ormai una faccia dura e non parlava, segno che era esasperata. Ecco il grande cartello policromo all’entrata del
diurno, la scala che scendeva nel sotterraneo. Anche qui non c’era anima viva. Ma, come furono discesi, lo
scoraggiamento li prese. Dinanzi ai due sportelli con soprascritto “Bagni” c’erano lunghe code; e altra gente, che
evidentemente aveva già acquistato lo scontrino, aspettava, seduta intorno, bisbigliando. Uno sportello era per
gli uomini, l’altro per le
donne. «Dio mio, non ne posso più» disse Anna. E lui: «Coraggio, adesso ci rinfreschiamo un poco. E poi, se
Dio vuole, troveremo un albergo». Così entrambi si misero in coda. Pure laggiù, a motivo del vapore caldo che
usciva dal corridoio dei bagni, l’aria era umida e opprimente. Intanto Antonio si accorse che la gente seduta li
esaminava, fissando specialmente Anna: gettavano un’occhiata e poi bisbigliavano tra loro; senza malizia, si
sarebbe detto, perché nessuno sorrideva. Anna fece più presto di lui. Dopo circa mezz’ora la vide, nella coda di
fianco, sopravanzarlo e avvicinarsi allo sportello. Quando fu il suo turno, la ragazza porse un biglietto da cento
lire. A questo punto Antonio fu distratto da un sommesso battibecco tra colui che lo precedeva e l’impiegato allo
sportello. Il commesso non disponeva di spiccioli, l’altro non aveva che biglietti da mille. «La prego, si tiri in
disparte, lasci passare gli altri…» Discutevano sottovoce, come temessero
farsi udire. Infine l’uomo si trasse da un lato, brontolando, e fece posto ad Antonio. Solo allora egli si accorse
che Anna a sua volta stava discutendo allo sportello accanto. Si era fatta rossa in volto e affannata, cercava con
ansia qualche cosa nella borsetta. «Hai perso i soldi?» gli chiese lui. «No, ma qui vogliono i documenti. E non
riesco più a trovare la tessera!» «Su allora, signore» sussurrò l’impiegato, esortando Antonio. «Un bagno?…
Ottanta…» «E occorre un documento?» Il commesso ebbe un vago sorriso. «Spero bene…» rispose con chissà
quali sottintesi. Antonio trasse la carta di identità di cui l’altro ricopiò i dati su un registro. Nel frattempo, a
causa di Anna, la coda delle donne si era inceppata e ne usciva un brusio di protesta. Finché dallo sportello
venne una voce sgradevole di donna: «Signorina, se non ha il documento, si levi per favore!…». «Ma io sto
male, ho bisogno…» insisteva Anna, sorridendo con fatica, per impietosirla. «Qui c’è un signore che mi
conosce e ha i documenti…» La commessa tagliò corto: «Non ho tempo da perdere… Mi faccia il piacere…».
Antonio trasse via dolcemente la ragazza per un braccio. Allora lei perse la calma: «Che modi!» gridò
all’impiegata. «Neanche se si fosse dei delinquenti!» L’alta voce echeggiò nella quiete con scandalo. Tutti si
voltarono stupefatti e ripresero a bisbigliare con più foga. «Anche questa doveva succedere!» diceva Antonio.
«E adesso come fai?» «Che ne so?» fece Anna sull’orlo del pianto. «Neanche un bagno si può fare in questa
maledetta città… Tu almeno, l’hai preso, lo scontrino?» «Io sì… Ora voglio provare: se potessi andare tu al mio
posto…» Si avvicinarono infatti alla inserviente che riceveva gli scontrini all’ingresso dei bagni, e chiamava,
con voce opaca, i numeri successivi, via via che il turno procedeva. «La prego» disse Antonio supplichevole. «Io
ho già preso lo scontrino ma devo andare… Non potrebbe utilizzarlo la signorina?» «Sì certo» rispose
donna. «Non ha che da andare allo sportello dei reclami e far registrare il documento…» «Senta» intervenne
Anna. «Sia buona… io l’ho smarrita la carta di identità… mi lasci fare il bagno lo stesso… non mi sento bene…
guardi che caviglia…» «Ma io non posso, figliola» fece la inserviente. «Se per caso se ne accorgono, i guai sono
miei, stia pur sicura…» «Andiamo» disse Antonio, esasperato anche lui. «È una caserma, questa.» Gli sguardi
dei presenti erano più che mai concentrati sulla coppia e quando i due giovani si avviarono alla scala per risalire
sulla via, il bisbiglio per un istante tacque. «Oh, andiamo a sederci da qualche parte, te ne supplico» si lamentava
Anna. «Non ce la faccio più a stare in piedi… Guarda un giardino!» La strada sboccava infatti ai margini di un
giardino pubblico che pareva da lontano pressocché deserto. In realtà le panchine completamente in ombra erano
tutte occupate. Si dovettero accontentare di un sedile riparato a metà da un ramo.
Seduta, per prima cosa Anna si slacciò le scarpette. Tutt’intorno crepitavano le cicale; e c’erano polvere e
desolazione. Poco più in là, dinanzi a loro, in uno spiazzo rotondo, essi videro una larga fontana circolare, con
uno zampillo al centro. Di tutto il giardino questo era l’unico posto affollato, sebbene esposto al sole. Donne e
anche uomini fatti sedevano sull’orlo, per lo più con le mani immerse nell’acqua a scopo di refrigerio; mentre
nel mezzo della fontana una torma irrequieta e vociante di bambini seminudi giocava con le barchette.
Sguazzavano felici, si schizzavano a vicenda, qualcuno si immergeva a pancia in giù, col vestito e tutto, senza
badare ai richiami della mamma. Per i flaccidi vapori ristagnanti sulla città – forse venuti dalle circostanti risaie
in putrefazione – i raggi del sole si erano nel frattempo fatti smorti. Ma il caldo sembrava diventare ancora più
pesante. «Guarda… l’acqua!» fece improvvisamente
Anna. «Aspettami un momento…» E lasciando le scarpette, prima che Antonio potesse trattenerla si affrettò
sorridendo alla fontana, chiese “Permesso” a quelli che sedevano sul bordo, lo scavalcò agilmente ed entrò
nell’acqua sollevando un poco le gonne. «Ah, che consolazione!» gridò ad Antonio che, con la valigetta e le
scarpe di lei, si era subito avvicinato. Dall’acqua, dove cercavano conforto, gli sguardi della gente si alzarono a
quella bella ragazza, misurandola. Subito le teste, sonnolente e immote, si animarono, incrociandosi fitti
dialoghi. Poi si alzò, precisa, una voce: «Signorina, torni indietro, per favore, la fontana è riservata ai bambini!»
Era una donna sui quarant’anni, un tipo di massaia, dal volto energico. Ma l’Anna era così contenta di trovarsi
nell’acqua. Tra quel vociare di bambini non udì il richiamo. «Signorina» ripeté la donna più forte. «Guardi che
non si può entrare nella fontana. È riservata ai
bambini.» Altre donne l’approvarono con cenni. Anna si voltò sorpresa, il volto ancora ridente. «Bambini o no»
rispose «ho bisogno di rinfrescarmi un poco, se permette.» Il tono era cordiale, con un accento quasi di
cerimonia che voleva riuscire scherzoso. Poi avanzò verso il centro della fontana, dove l’acqua diventava
progressivamente più profonda. Un’altra donna dall’espressione volpina agitò in alto le mani. «Questa fontana è
dei bambini» gridò. «Ha capito? È dei bambini!» Altre ancora fecero eco: «Fuori dalla fontana! Fuori! È
riservata ai bambini!». Anche i piccoli, che da principio non vi avevano fatto caso, guardarono la ragazza entrata
nell’acqua in mezzo a loro; e interruppero i giochi, come aspettando qualcosa. «Torni indietro! È proibito!
Fuori!» Anna era già quasi sotto lo zampillo, dove i bambini erano più fitti. L’acqua le arrivava alle ginocchia. A
quelle grida si voltò nuovamente e, chissà come, non
vide che cosa erano diventate in pochi istanti le facce delle donne intorno: sudaticce, rosse, tirate dall’ira, con
una piega odiosa agli angoli delle labbra. Non vide, non ebbe paura. «Eh!» rispose, alzando una mano a
esprimere impazienza e noia. Dal bordo della fontana, in tono accomodante, Antonio cercò di evitare un litigio.
«Anna, Anna, torna adesso. Ti sei rinfrescata abbastanza.» Ma lei capì che Antonio si vergognava di lei e
giustificava in certo modo le donne. In risposta scalpitò nell’acqua come una ragazzina. «Sì, sì, ancora un
momento!» Non voleva darla vinta a quelle streghe. Ciàc. Qualcosa di grigio volò sopra l’acqua e subito si vide
una chiazza pesante di sudicio sulla schiena dell’Anna; e scolava giù per la stoffa azzurra a fiori. Chi era stato?
All’improvviso una delle popolane, bella donna alta e robusta, aveva tuffato una mano nel fondo, raccogliendo
un pugno di fango. Poi l’aveva lanciato. Risate e grida si levarono. «Fuori! Fuori della
fontana! Fuori!» Erano anche voci di uomini. La gente, poco prima intorpidita e molle, si era tutta eccitata. Gioia
di umiliare quella ragazza spavalda che dalla faccia e dall’accento si capiva ch’era forestiera. «Vigliacchi!»
gridò Anna, voltandosi d’un balzo. E con un fazzolettino cercava di togliersi di dosso la fanghiglia. Ma lo
scherzo era piaciuto. Un altro schizzo la raggiunse a una spalla, un terzo al collo, all’orlo dell’abito. Era
diventata una gara. «Fuori! Fuori!» gridavano, in una specie di giubilo. Una grande risata si allargò quando un
bel blocco di fango si spiaccicò su un’orecchia di Anna, insozzandole la faccia; gli occhiali da sole volarono via,
scomparendo sott’acqua. Sotto la tempesta, la ragazza cercava di ripararsi, ansimando, e gridava frasi
incomprensibili. Qui Antonio intervenne, facendosi largo. Ma come avviene nei momenti di eccessiva emozione,
pronunciò parole sconnesse: «Per piacere, per piacere» cominciò «lasciate stare! Che cosa vi ha fatto
male, per piacere… Vi dico che… Sentite… Vi consiglio… Anna, Anna, vieni via subito!». Antonio era
forestiero e tutti, là, parlavano in dialetto. Le sue parole ebbero un suono curioso, quasi ridicolo. Proprio al suo
fianco uno si mise a ridere. «Per piacere eh? per piacere?» E gli faceva il verso. Era un giovane sui trent’anni, in
canottiera, dal volto asciutto e furbesco da teppista. Ad Antonio tremarono le labbra. «Cosa c’è? cosa c’è?»
chiese. Nello stesso istante, con la coda dell’occhio, scorse una donna che alzava un braccio, nell’atto di lanciare
ancora fango. Con un balzo lui la afferrò al polso, fermandola; la poltiglia sfuggì dalle dita. «Con le donne eh?
Te la prendi con le donne?» fece il giovanotto in canottiera. «Tu saresti l’amico?» E si fece sotto. «No, eh!»
minacciò, passando una mano rasente alla faccia di Antonio, per provocarlo. Per respingerlo Antonio sferrò un
pugno. Ma era un pugno maldestro, e colpì solo
una spalla di striscio. Il giovane non barcollò neppure. Rideva, sembrava divertirsi moltissimo; e cominciò a
saltellare, tutto proteso in avanti, come fanno i boxeurs, molinando i pugni. «Ecco, per piacere!» Il suo braccio
sinistro si allungò. Lentamente, si sarebbe detto, senza alcun impeto. Eppure Antonio, chissà perché, non riuscì a
evitarlo. Un colpettino dalla parte del fegato, un pugno dato per scherzo, pareva. Ma subito, tirando il fiato, egli
sentì un atroce dolore propagarsi nelle viscere: profondo, cupo, maligno. Gli mancò il respiro. «Per piacere! Per
piacere!» ridacchiò l’altro, facendogli ancora il verso. E allungò l’altro braccio. Il pugno toccò appena,
sembrava. Tuttavia, dopo un attimo, Antonio si piegò in due, gemendo. Poi dal fondo gli salì un senso orrendo di
nausea. Non vide più che una confusione di ombre. Retrocedette fino all’albero più vicino, per appoggiarsi.
Come si riebbe – ed erano passati pochi secondi – alla fontana stava succedendo qualche cosa di nuovo.
Anna non si era ancora ritirata dal centro. Tutta imbrattata di fango, la faccia tesa a una smorfia di affanno, ora
cercava di ripararsi con le mani, ora tentava di schizzare getti d’acqua contro chi la bersagliava. Ma si muoveva
con fatica, come per una grande stanchezza che la avesse sorpresa. Si teneva adesso in mezzo ai bimbi
calcolando che le mamme, per non rischiare di colpirli, avrebbero risparmiato anche lei. «Antonio, Antonio!»
chiamava «guarda come mi han ridotto! Dio come mi han ridotto!» Ripeteva meccanicamente questo grido e
pareva non sapesse dire altro. «Fuori! Fuori! Via di qui! Tieni questa!… Fuori!… Sei sporca? di’, sei sporca?
Fuori! fuori!… E tu Nini vien via… Venite via, bambini!» Così le donne. Infatti i bimbi cominciarono a ritirarsi,
lasciando l’Anna sempre più sola. Ormai, anche se l’Anna si fosse decisa a uscire, non sarebbe stata più una
cosa semplice. La avrebbero lasciata passare? Non si sarebbero accaniti
ancora? Dagli alberi intorno all’improvviso le cicale fecero uno strepito rabbioso e acuto, molto più forte di
prima; come se un terrore fosse passato tra le foglie. Quasi nello stesso istante un bambino di otto-nove anni,
eccitato dalle grida, si avvicinò all’Anna alzando una sua rudimentale barchetta di legno. Fattosi dappresso,
senza una parola, vibrò il giocattolo di forza contro uno stinco della ragazza. La chiglia, rinforzata da una striscia
di latta, urtò nell’osso con un colpo secco. Molte cose succedono in un minuto o due, molto riescono a fare gli
uomini in così piccolo spazio di tempo, anche se è caldo e i marci vapori delle risaie imputridiscono sulla grande
città, rendendo odiosa la vita. Un urlo volle uscire dalla gola della ragazza. Non ne venne fuori che il fiato senza
suono, una specie di sibilo. Nello spasimo lei abbrancò fulmineamente il bimbetto, scaraventandolo lungo
disteso nell’acqua. Per un istante la testa scomparve sotto la superficie. Dal bordo della vasca, rispose un urlo
bestiale,
orribile a udirsi. «Ammazza il mio bambino! Ammazza il mio bambino! Aiuto! aiuto!» Chi sentiva più il caldo?
Il pretesto sembrava meraviglioso. Niente ormai tratteneva il buttare fuori il fondo dell’animo: il sozzo carico di
male che si tiene dentro per anni e nessuno si accorge di avere. Un’agitazione frenetica prese le donne. Quella
dal volto volpino cominciò a saltellare, girando su se stessa, e gridava: «Boia! Boia! Boia!» senza alcun senso.
Qualche decina di metri più in là, con quel dolore al fianco che stentava a spegnersi, Antonio ansimava ancora.
Intravide soltanto la scena e non capiva. Ma ecco si accorse che la gente non parlava più come prima. Fino allora
aveva udito intorno parlare il solito dialetto della città, per lui facilmente comprensibile. Adesso,
inspiegabilmente, le bocche sembravano gonfiarsi, incespicando, e ne uscivano parole diverse, di suono rozzo ed
informe. Come se dai remoti pozzi della città fosse venuta su un’eco turpe e nera. La scellerata voce
dei bassifondi antichi all’improvviso riviveva, carica di delitti? Egli fu tra stranieri, in una terra lontana e
inspiegabile, a lui feroce. In quel mentre le grida s’accrebbero. E la gente scavalcò il bordo della fontana
irrompendo nell’acqua. Ci fu un groviglio. Poi tutti uscirono dalla vasca e per prima apparve l’Anna brutalmente
tenuta da due tre donne che la battevano. Era tutta lorda e scarmigliata, e il volto si era fatto terreo, con dentro un
mortale affanno. Piangeva? singhiozzava? gridava? Le urla coprivano la sua voce, né si poteva capire. Ogni
tanto, sotto i colpi, inciampava, ma le altre la trascinavano via, tenendole le braccia immobilizzate dietro la
schiena. Dove la conducevano? Antonio guardava sgomento. Intorno a lui solo volti imbestialiti, sguardi duri
che lo fissavano. Battendogli il cuore, corse a cercare una guardia. Lo raggiunse, mentre si allontanava, una
nuova esplosione di urla: «Alla gabbia!» gli parve che gridassero. Ma forse aveva capito male. Che cosa poteva
voler dire? Non aveva fatto duecento metri quando scorse due guardie municipali che si avvicinavano, attratte
dal baccano; ma senza fretta. Lui disse, e faticava a parlare: «Presto, per carità, ammazzano una ragazza!
L’hanno presa, la portano via!». I due lo guardarono con stupore, quasi non avessero capito; né accelerarono
minimamente il passo. La turba delle donne che trascinavano Anna veniva però incontro. La ragazza era ormai
un cencio, sembrava inebetita. «Mamma! mamma!» ripeteva senza interruzione. E quelle la sospingevano come
una bestia. Ma subito dietro veniva un altro gruppo, in maggioranza di donne, portando in trionfo un bambino.
Era il bambino che l’Anna aveva gettato nell’acqua. Sua mamma gli accarezzava le gambe. «Tonino, anima
mia!» gridava. «Tesoro! Chelle cnn che lev mmmmmm!» Dopo le prime parole tutto si disfaceva in un mugolio
incomprensibile. Le altre donne facevano di sì con la testa, approvando, battevano
le mani, poi una correva avanti, come non ci fosse un istante da perdere, e pestava i pugni sull’Anna, cercando di
farle più male possibile. Che cosa aspettavano le guardie? A passi incerti si erano affiancate al corteo, facendo
degli strani gesti con le mani. Un ometto gobbo si fece loro incontro. «L’abbiamo presa!» spiegò ansimando.
«Voleva mmegh n bemb ghh mmmm mmmm!» Anche a lui le parole si intorbidivano in quel tenebroso
mugolio. Le guardie impallidirono. Uno dei sorveglianti guardò allora Antonio, come volesse scusarsi. Ma il
volto costernato del giovane parve richiamarlo al dovere. Fece un segno al compagno per dirgli ch’era l’ora.
Quindi afferrò per un braccio una delle donne. «Un momento! Un momento!» intimò con voce malferma. La
donna non si voltò nemmeno. Una forza cupa ed enorme la trascinava via con le altre. Indecifrabili commenti si
intrecciavano. La guardia mollò la presa. I piedi sollevavano nembi di polvere misti a caldi fiati pestilenziali.
Spinsero Anna verso l’antico castello che sorgeva ai margini del giardino. Qui, appesa sopra il ponte levatoio e
sostenuta da una specie di argano, c’era una piccola gabbia in ferro, usata anticamente per mettere i delinquenti
alla gogna. Sembrava, contro il muro giallastro, un gigantesco pipistrello. Ci fu là sotto un ingorgo, entro cui
Anna sparve, poi si vide la gabbia oscillare, calando a sbalzi sulla folla. Le urla divennero trionfali. Pochi
minuti, ed ecco tendersi le funi, e la gabbia risalire con dentro una creatura umana: era vestita d’azzurro, era
inginocchiata, era scossa da singulti, le mani strette alle sbarre. E cento braccia erano tese verso di lei mentre
incomprensibili oggetti volavano per colpirla. Ma, come fu circa un metro sopra le teste, quella specie di antica
gru scricchiolò e cedette, girando l’asta di legno. E la fune, non più trattenuta, cominciò a scorrere, calando la
gabbia di là del ponte, entro il negro fossato del castello. Finché
la macchina con un cigolio, ristette, e la gabbia sbatté, fermandosi, contro la muraglia esterna, quattro metri sotto
il livello del terreno. Ululò la gente, con l’ansia di non restare defraudata. Lasciato il ponte, subito si addensava
lungo la ringhiera di ferro, e tutti si protendevano, guardando giù a picco. Qualcuno si mise a sputare. Dall’alto
si vedevano le esili spalle di Anna sussultare, la testa abbandonata in giù; sui capelli sconvolti piovevano terra,
ghiaia e sudicizia. «Guardala guardala» dicevano. «Non ha mica i cragghh craghh guaaaah!» E alzavano sopra le
spalle Tonino, il quale non capiva e si guardava intorno spaventato. Antonio finalmente riuscì a raggiungere il
parapetto del ponte. Ora poteva vedere la gabbia. «Anna! Anna!» cominciò a chiamare in mezzo a quell’inferno.
«Anna! Anna! Sono io!» Provò tre volte, poi qualcuno lo toccò a una spalla. Era un signore sulla cinquantina
dall’aria squallida e sconsolata; scuoteva il capo. «No, no»
disse, ed Antonio ebbe un moto di gratitudine nell’udire che parlava civilmente. «Per carità, non lo faccia!»
Antonio non comprese. «Che cosa? che cosa?» balbettò. L’altro scosse ancora la testa, portò l’indice alle labbra
per raccomandare silenzio. «Non lo faccia, no… È meglio che lei se ne vada, fa caldo qui, molto caldo…» «Io?
Io?…» chiese, tremando, e vide intorno sei sette facce orrende protendersi per ascoltare. Allora si ritirò dal
parapetto. Già si avvicinava il tramonto, senza fresco né consolazione. Le grida a poco a poco calavano, restò un
mormorio sordo e cupo, la folla lungo la ringhiera del fossato però non si muoveva. Poco discosto, coppie di
guardie ciondolavano su e giù nervosamente. Aspettavano che la gente se ne andasse? Così forse era stato
ordinato dalle autorità per evitare disordini. «Dio mio, che disgrazia» mormorava Antonio,
cercando
dopo parecchi minuti. Ma lontano dalla gabbia. Tentò ugualmente di chiamare: «Anna! Anna!». Lo riscosse un
colpo alla nuca. Era ancora il giovane in canottiera. «Sei qui, sei qui tu?» fece con un sorriso velenoso. «Non ti
bst bst cedìn ghaaaah!» E ruppe in un gorgoglio inarticolato. «È il complice, arrestatelo! Face guisc guisc
ellèh… mmm… mmmm!» gridarono. «Anche lui!» propose uno. Risposero: «Anche lui». Antonio tentò di
allontanarsi. Fu afferrato, lo tennero. Gli legarono i polsi, d’impeto fu rovesciato di là della balaustra, restò
appeso nel fossato, trattenuto a una corda. Così venne strascinato lungo la muraglia, fin sopra la gabbia: qui
mollarono. Cadde di schianto sul fondo, pestando un piede dell’Anna che non si mosse. Sopra di loro tuonò un
muggito selvaggio. La luce del giorno diminuiva. Slegatosi con fatica, Antonio cinse le spalle di lei, sentì sotto
le dita il viscido che la imbrattava.
Anna continuava a tenere giù la testa. «Mamma, mamma» andava ripetendo senza espressione. Poi prese a
tossire e si scuoteva tutta. In alto ancora vociavano. Ormai sazi o con un certo disgusto molti si allontanarono. I
rondoni del crepuscolo stridevano intorno al castello. Da una lontana caserma si udì anche la tromba della
ritirata. Sulla città pulverulenta era scesa infine la sera. Quand’ecco arrivare una vecchia con un grosso involto; e
rideva felice. «Tonino! Tonino!» gridò facendo segno al pacco come se annunciasse una cosa bellissima. La
calca si aprì, lasciandola passare. Come fu presso la balaustra, la vecchia dischiuse il fagotto, mostrando un
piccolo vaso; e l’abbassò affinché tutti potessero vedere dentro. «Tonino, Tonino» ripeteva, facendo cenno al
contenuto. Poi si sporse dalla ringhiera, tese un braccio col vaso sopra la gabbia, calcolò la mira. Disse: «Non se
la meriterebbe neanche!». La materia piombò, con flaccido scroscio, sulle
spalle di Anna. Ma lei non si mosse, non protestò. Si udì soltanto la sua tosse, profonda e secca, che non riusciva
a liberarsi. Nella turba ci fu un attimo di indecisione. Poi, la vecchia sghignazzando, si allargò una risata. Nel
silenzio che seguì, dal muro del fossato a cui la gabbia appoggiava, proprio in corrispondenza, giunse il tremulo
richiamo di un grillo. Cri-cri, pareva si avvicinasse. Attraverso le sbarre, Anna tese adagio verso il grillo una
piccola mano tremante, come chiedendo aiuto.

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