domenica 14 aprile 2019

Brani tratti dal libro “Tra Giungle e pagode” di Giuseppe Tucci


Il Nepal è dunque uno dei paesi più vari e complessi dell’Asia: ricco di colore ma anche di dolore. Sotto la vivacità dei vestiti e l'allegria chiassosa dei Bazar si cela come un’angoscia, il presagio di un alfido corruccio della natura; l’avverti in ogni simbolo o forma. Sotto il sorriso e lo splendore delle cupole dorate dei templi incupisce la mole rossiccia delle cappelle senza finestre, impenetrabili: le porte non aprono un mistero lo difendono. Pag.20

Non esce da questa dam questa tremenda contraddizione che non trascenda, come fanno i maestri dell’Oriente, la persona umana e rinunci alla disperata speranza della personale sopravvivenza e consideri la vita individuale come onda breve suscitata dal gioco del vento sulla superficie del mare. Appena l’attaccamento all’IO si lascia, la vita non è più l’effimera spanna di tempo che corre, per me soltanto, fra la culla e la bara, ma la vita cosmica di tutte le creature e le cose e i mondi che furono e saranno e mai si arresta; perde allora il suo terrore la morte ed appare nel suo vero significato, come necessario momento di una dialettica,attraverso la quale si svolge e si attua l’indefinita mutazione delle cose. Non ci sarà più morte quando alla nostra morte avremo sostituito un coraggioso sacrificio della pietosa illusione la vita dell’Universo, questo tremendo gioco che per durare crea e distrugge.

Cotesta convivenza dell’uomo con la natura non è soltanto spaziale, è anzi il comune  proseguimento della primordiale unità dell’uno e dell’altra, quando l’uomo ancora non s’opponeva alla natura e non cercava di interpretarla ma l’accettava così com’è, partecipanto docile a tutti i suoi fascini e terrori. Non più templi, né pagode, non più immagine di dei e riti complicati: l’albero e un sasso sono ormai il simbolo e la dimora degli dei. I quali hanno la capricciosa irrequietezza ed incostanza delle forze naturali: quasi caos, non ancora intelletto, impulso, non volontà. La speculazione dell’India , che ha conquistato la valle e giustifica l'ebbrezza sconcertante dell’arte Nepalese, non è giunta ancora in queste campagne e non è riuscita a trasfigurare in simboli i miti antichi e gli stupori primordiali. Sciva, o per meglio dire alcune entità parallele ed affini che l’Induismo ha assimilato a Sciva, è nato nell’intrico di questa giungla o all’ombra di queste montagne.  Egli conserva ancorail proprio ambiguo carattere: Dio della vita e della morte:Dio senza pietà, come è senza pietà questo divenire che ci trae alla luce e ce ne priva, indifferentemente. La vita è dolore: più che dolore è incubo ed insidia, non solo per la minaccia della morte, ma perché non c’è gioia, forse soltanto pena ed angoscia sotto il sole che brucia, fra le acque che alimentano e travolgono insieme, nelle foreste dove la vita impazza così intensa che se medesima soffoca e sopprime. Percorrere queste valli è come scendere alle origini. Hai il senso impreciso, ma sempre vigile, di qualcheduno che ti spii o segua, di un’insidia o di un rischio e non nelle serpi che strisciano sul cammino e nelle bestie che s’intanano nella foresta  o nei miasmi,ma è qualche cosa di più, come una paura cosmica e assoluta.Pag.73.

Siamo davvero ad un confine: confine etnico , religioso, linguistico. Qui arriva l’ultima spinta del Laismo rifluito dal nord e ancora resiste alla penetrazione indù che lenta, accomodante, ma implacabile s’è diffusa: come succede nelle zone dove due culture si toccano e le due religioni stingono facilmente l’una nell’altra, la gente pavida dalla misteriosa presenza di forze occulte preferisce mettersi al sicuro e accomuna nelle proprie preghiere gli dei dell’una e dell’altra fede. Pag.94.
Il sentiero scivola fra dune, si insinua in corridoi e labirinti spettrali, scende a Ghiling intirizzita sotto i venti chiassosi e sparsa su vasti campi d’orzo. Mandrie di Yak pascolano lente; nomadi tibetani scesi con interminabile cammino dai confini della Cina con lo spadone infilato alla cintola, la zazzera incolta, avvolti in pesanti casacche di lana e di pelle hanno l’aspetto di briganti; indocili ed irrequieti sono i liberi padroni dei vasti silenzi del tetto del mondo. E’ la sola gente che invidio: senza vincoli, sereni nella nativa essenziale semplicità, ignari delle architetture illusorie che il tempo logora e disperde come il vento la polvere, vaganti fra gli spazi immensi sembrano sospesi tra la terra e il cielo. Pag.107.

Qui l’immensità degli spazi annulla: si capisce come i Tibetani abbiano accettato con tanta adesione la metafisica del grande veicolo che l’uomo e le cose riduce al sogno di un’ombra: che è l’uomo in questi pianori che fuggono oltre l’orizzonte, in queste solitudini cosmiche, fra queste vastità, dove anche le montagne sembrano piccoli poggi. Pag.113.

Da quando siamo sul territorio del Lamaismo troviamo spesso i segni di esorcismi contro influenze nefaste: si chiamano Zor ( o anche mdos) e consistono di un telaio centrale a forma di croce, sui bracci del quale sono più volte passati e ripassati fili di cinque colori: quelli bianchi sono per gli dei, quelli degli altri colori per i zen, le potenze malevole, dappertutto in agguato e per innata perfidia sempre pronte a nuocere: dispensano le malattie e le epidemie, mandano a male il raccolto, causano tutte le calamità di cui l’uomo sotto ogni cielo, soffre e si lamenta. GLi esorcisti invocano le temute entità nella magica proiezione del mondo rappresentata dallo zor e ivi costrettele le tengono sotto il controllo proprio o degli dei, o le disperdono con l’esca delle offerte. Pag.119.

E’ chiaro che i due riti si sovrappongono, quello Buddhista e quello Bonpò: la persona la cui immagine di paglia è stata gettata nel fiume è morta ieri ed è stata tagliata a pezzi ed esposta sulla montagna agli animali. Anche questo è un rito aborigeno che i buddhisti non sono riusciti ad eliminare per un motivo molto pratico; perchè nel Tibet non c’è legna da sprecare per i morti. Pag.121.

Quando si crede nel carma, ogni opera buona compiuta è destinata fatalmente a maturare: per la qual cosa grato deve essere non chi riceve un favore ma chi lo fa, perchè la persona che gliene ha fornito l’occasione gli offre il destro  di migliorare il proprio destino, di gettar semi di bene che porteranno per lui immancabile futuro. Se v’ha da essere gratitudine nel mondo è soltanto per chi ci offende o fa del male: se io saprò rispondere con sopportazione e perdono alle sue percosse e alle sue villanie, mentre più credeva di danneggiarmii, egli più mi gioverà, perché mi ha aperto o reso più facile la via della liberazione. Pag.123.

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