domenica 1 novembre 2015

Stefano Benni “Achille piè veloce”

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Aspirò una boccata umida di brezza del mattino e fece entrare azoto, ossigeno, argon, xenon & radon, vapore acqueo, monossido di carbonio, ,biossido di azoto, piombo tetratile, benzene, particolato di carbonati e silicati, alcune spore fungine, un’aereoflotta di batteri, un pelo anonimo, un ectoparassita di piccione, pollini anemofili, una stilla di anidride solforosa convolata da una remota fabbrica, e  un granello di sabbia proveniente da Tevtikiye, Turchia nordoccidentale, trasportato dallo scirocco nella notte.
Insomma, respirò l’aria della città.
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La vita di un puntuale è un inferno di solitudini immeritate. Non Crede? (Achille)
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Sì, Achille era un povero eroe colpito dal destino, ma anche Ulisse era inviso al destino e quando uno è triste non servono le classifiche, non c’è un tristo metro, è inutile dire sto mediamente peggio di te o decisamente meglio di te, si diventa tutti ottusi ed egoisti e la propria tristezza diventa una grande campana in cui ci si chiude, per non ascoltare la tristezza degli altri. (Achille)
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Te l’ho detto. Qualche volta uso il pelago, per scovare testi rari. Non leggo i giornali, e la patria televisione l’ho vista per breve tempo, quando ero ricoverato in ospedale. E’ un luogo di malattia dove tutti parlano insieme, sovrapponendosi uno all’altro, oppure parlano e fingono di non ricordare ciò che hanno detto. Esattamente come nei manicomi. Ma lì non rischi l’elettrochoc, e ti pagano pure. Locus miser! Clinica di lusso, dove il conformismo festeggia l’impunità di definirsi trasgressione. Caserma di imboscati, camerateschi con i superiori , sadici con i deboli. Luogo di mostri gozzuti, condannati a copulare in eterno tra loro. Puzza di morte più della mia camera….Tu la guardi? (Achille)
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Se mi facessero entrare in una chiesa, griderei: smettete di guardare quell’altare vuoto. Adoratevi l’un l’altro. Ti sembro blasfemo? (Achille)
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-Non lo so-rispose Pilar- quando guardo  questi alberi, penso che il mio posto non è in una città. Vorrei vivere in un bosco, dove la quercia e il faggio, i rovi e il muschio hanno uguale diritto di sopravvivenza, tutt‘al più  c’è qualche fungo parassita che fa il furbo. Dove non senti commenti sul colore del tuo tronco, o ti guardano male perché hai le foglie scompigliate. Oppure sotto il mare, dove nessuno è più forte e potente degli altri, ci si mangia a vicenda con equanime appetito. O in cima a una montagna, dove un paio di guanti caldi vale cento smoking. Questo paese trabocca di parole virtuose, la televisione le ripete cento volte al giorno, non c’è programma che non sponsorizzi qualche buona causa: eppure è diventato ogni giorno più razzista e insensibile. O siete sordi, o quelle parole sono false. (Pilar)
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Per quanto? Un mese, un anno. Poi questo paese mi scaccerà. Il tuo paese che ha venduto la sua varietà, la sua meravigliosa bastardaggine, il suo sangue di mille colori, in cambio del privilegio di sedere con i più forti, che forti non sono, sono soltanto più armati e più disperati. Un paese che ha tutto, meno il pane della dignità e il vino della speranza. Un paese di governanti che odiano chi è debole eppure è più vivo di loro, chi non ha potere eppure ha più futuro di loro. Di miserabili che non vogliono essere  giudicati, ma sono già nell’inferno della storia. Non voglio più vivere qui.  (Pilar)

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