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venerdì 20 novembre 2015

Brani tratti da "Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Erich Maria Remarque


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Di Kantorek ve n’erano  migliaglia, convinti tutti di far per il  meglio nel mondo ad essi più comodo. Ma qui appunto sta il fallimento. Essi dovevano essere per noi diciottenni introduttori e guide all’età virile, condurci al mondo del lavoro, al dovere, alla cultura, al progresso; insomma all’avvenire. Noi li prendevamo in giro e tavolta facevamo loro piccoli scherzi, ma in fondo credevamo a ciò che ci dicevano… il primo fuoco tambureggiante ci rilevò il nostro errore, e dietro ad esso crollò la concezione del mondo che ci avevano insegnata.
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Del resto è strano che l’infelicità del mondo derivi tanto spesso dalle persone piccole, di solito assai più energiche e intrattabili delle grandi. Mi sono sempre guardato dal capitare in reparti che avessero dei comandanti piccoli: generalmente sono dei pignoli maledetti.
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Ci eravamo arruolati pieni di entusiasmo e di buona volontà: si fece di tutto per spegnere in noi l’uno e l’altra. Dopo tre settimane riuscivamo già a concepire come un portalettere, divenuto per caso un superiore gallonato, potesse esercitare su di noi un potere maggiore di quello che prima non avessero i nostri genitori, i nostri educatori e tutti gli spiriti magni della civiltà-da Platone a Gothe-messi insieme. Coi nostri giovani occhi aperti vedemmo come il classico concetto di patria, quale ce lo insegnano i nostri maestri, si realizzasse per il momento in una rinunzia alla personalità, quale mai non si sarebbe osato imporre alla più umile persona di servizio. Saluto, attenti, passo di parata, present’arm, fianco dest’, fianco sinist’, battere i tacchi, cicchetti e mille piccole torture. Ci eravamo figurati diversamente il nostro compito; sembrava che ci si preparasse all’eroismo come cavalli da circo; ma finimmo  coll’abituarci. Comprendemmo anzi che alcune di quelle cose erano necessarie, mentre altre erano del tutto superflue. Per questo cose il soldato ha un fiuto finissimo.
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Noi eseguivamo esattamente perché il comando è comando e deve essere eseguito.
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Divenimmo duri, diffidenti, spietati, vendicativi, rozzi; e fu bene: erano proprio quelle le qualità che ci mancavano. Se ci avessero mandato in trincea senza quella preparazione, i più sarebbero impazziti. Così invece eravamo preparati a ciò che ci attendeva.
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Kat non si lascia smuovere  dall’opinione che da vecchio lupo di trincea esprime  così, ancora in  in versi :”Paga e vitto per tutti uguale, pace garantita e generale”.
Kropp invece è un pensatore. Le dichiarazioni di guerra, egli propone, dovrebbero essere una specie di festa popolare, con biglietti d'ingresso e banda, come per i combattimenti dei tori. Poi, nell'arena, i ministri e i generali dei due stati avversari, in calzoncini da bagno e armati di manganello, si azzuffano. Vince il paese di quello che caccia l'altro sotto. Sarebbe assai più semplice e meglio di adesso, che s'ammazzano tra loro persone che non c'entrano"
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Allora vede i suo elmo e se lo rimette in capo: adagio ritorna in sé…ma un tratto diventa rosso come una bragia e fa una certa faccia imbarazzata. Con prudenza mette la mano al sedere e mi fissa angustiato- Ho capito subito: diarrea di guerra. Non per questo, a dir vero, gli avevo schiaffato l’elmo proprio lì, ma lo consolo egualmente: “Non ci badare, non è vergogna. Ben altri che te ha riempito i calzoni dopo il primo attacco. Va dietro al cespuglio, getta via le mutande,e non pensarci più”
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Ha ragione: non siamo più giovani, non aspiriamo più a prendere il mondo d’assalto. Siamo dei profughi, fuggiamo noi stessi, la nostra vita. Avevamo diciotto anni, e cominciavamo ad amare il mondo, l’esistenza: ci hanno costretto a spararle contro. La prima granata ci colpiti al cuore; esclusi ormai dall’attività, dal lavoro, dal progresso, non crediamo più a nulla. Crediamo alla guerra.
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Uccidere un singolo pidocchio, quando se ne hanno  addosso centinaia, è un affar serio. Le bestiole sono piuttosto dure  e alla lunga diventa noioso quel perpetuo schiacciarle con le unghie.
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Per puro caso posso essere colpito, per puro caso rimanere in vita. In un ricovero a prova di bomba posso essere schiacciato come un topo e su terreno scoperto posso resistere incolume a dice ore di fuoco tambureggiante. Ciascuno di noi rimane in vita soltanto in grazia di mille casi; perciò il soldato crede e fida nel caso.
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Oggi nella patria della nostra giovinezza noi si camminerebbe come viaggiatori di passaggio: gli eventi  ci hanno consumati; siamo divenuti accorti come mercanti, brutali come macellai. Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Sapremo forse vivere, nella dolce terra: ma quale vita? Abbandonati come fanciulli, disillusi come vecchi, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti.
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Oh le pallide facce color di rapa, le tristi mani abbrancate, il miserabile coraggio di questi poveri cani, che nonostante tutto vanno avanti e attaccano; di questi, bravi, poveri cani, così intimiditi che neppure osano urlare la loro sofferenza, e col petto  e con la pancia squarciati, con le braccia e le gambe fracassate non sanno che gemere piano, chiamando la mamma e tacciono subito se qualcuno li guarda in viso!
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Vediamo vivere  uomini a cui manca il cranio; vediamo correre soldati a cui un colpo ha falciato via i due piedi e che inciampano, sui moncherini scheggiati, fino alla prossima buca; un caporale percorre due chilometri sulle mani, trascinandosi dietro i ginocchi fracassati; un altro va al posto di medicazione premendo le mani contro le budella che traboccano; vediamo uomini senza bocca, senza mandibola, senza volto; troviamo uno che da due ore tiene stretta coi denti l’arteria del braccio per non dissanguarsi; si sole si leva, viene la notte, fischiano le granate, la vita se va  a goccia a goccia.
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Non siamo mai stati molto teneri in famiglia; non usa tra la povera gente, che deve lavorare molto  e ha tanti fastidi. La gente semplice non capisce che ci si debba di continuo confermare ciò che si sa già.
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Arriva un nuovo convoglio di feriti. Nella nostra camerata entrano due ciechi. Uno è un musicista giovanissimo. Le suore non hanno mai con sé il coltello quando gli danno da mangiare, perché già una volta lo ha strappato loro di mano. Una sera durante il pasto, la suora viene chiamata via e pel momento depone sul tavolino accanto a lui il piatto con la forchetta. Egli trova a tastoni la forchetta, se l’avventa a tutta forza contro il cuore, poi prende una scarpa e picchia sul manico quanto più può. Gridano aiuto, tre uomini appena bastano a strappargli la forchetta, i cui denti  ottusi erano già penetrati nelle carni. Tutta la notte inveisce contro di noi, tantochè nessuno riesce a prender sonno. Al mattino lo assale una crisi di pianto.
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Dev’ essere  tutto menzognero e inconsistente, se migliaglia d’anni di civiltà non sono nemmeno riusciti ad impedire che questi fiumi di sangue scorrano,che queste prigioni di tortura esistono a migliaglia. Soltanto l’ospedale mostra che cosa è la guerra.
Io sono giovane, ho vent’anni: ma della vita non conosco altro  che al disperazione, la morte, il terrore, e la insensata superficialità congiunta con un abisso di sofferenze.
Io vedo dei popoli spinti l’uno contro l’altro , e che senza una parola, inconsciamente, stupidamente, in una inconsapevole obbedienza si uccidono a vicenda.  Io vedo i più acuti intelletti del mondo inventare armi e parole perché tutto questo s perfezioni e duri più a lungo. E con me lo vedono tutti gli uomini della mia età, da questa parte e da quell’altra del fronte, in tutto il mondo: lo vede e lo vive la mia generazione.
Che faranno i nostri padri, quando un giorno sorgeremo e andremo davanti a loro a chieder conto? Che aspettano essi da noi, quando verrà il tempo in cui non vi sarà guerra? Per anni e anni la nostra occupazione è stato uccidere, è stata la nostra prima professione nella vita. Il nostro sapere della vita si limita alla morte. Che accadrà, dopo? Che sarà di noi?
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Questa vita ci ha ridotto ad animali appena pensati, per darci l’arma dell’istinto; ci ha impastati di insensibilità, per farci resistere all’orrore che ci schiaccerebbe se avessimo ancora una ragione limpida e ragionante; ha svegliato in noi il senso del cameratismo, per strapparci dall’abisso del disperato abbandono; ci ha dato l’indifferenza dei selvaggi per farci sentire, ad onta di tutto, ogni momento della realtà, e per farcene come una riserva contro gli assalti del nulla. Così meniamo un’esistenza chiusa e dura, tutta in superficie, e soltanto di rado un avvenimento accende qualche scintilla. Ma allora divampa in modo inatteso una fiammata di passione aspra e terribile. Sono questi i momenti pericolosi, che ci rilevano come il nostro adattamento sia tutto artificiale; come esso non sia affatto la calma,ma uno sforzo terribile per mantenere la calma.
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La nostra linea viene portata indietro. Di là ci sono troppi reggimenti freschi,inglesi ed americani; troppo corned beef, troppa farina di grano. E troppi cannoni nuovi; e troppa aviazione. Noi invece siamo magri e spossati dalla fame. Il nostro vitto è tanto cattivo e tanta parte composto di surrogati, che ne siamo malati. I fabbricanti in Germania si sono fatti ricchi signori; ma a noi la dissenteria brucia le budella.
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La vita, che mi ha portato attraverso questi anni, è ancora nelle mie mani e nei miei occhi. Se io abbia saputo dominarla, non so. Ma finchè dura, essa si cercherà la sua strada, vi consenta e non vi consenta quell’essere,che nel mio interno dice “io”.
Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “ Niente di nuovo sul fronte occidentale”.

Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi che fossi contento di finire così.

sabato 29 novembre 2014

Valerio Massimo Manfredi-La tomba di Alessandro

La morte di Alessandro Magno, come quella di Gesù, di Giulio Cesare, di Socrate, è uno di quegli eventi in sé negativi che però ebbero un impatto enorme nella storia dell’umanità. Tre su quattro di questo personaggi vennero considerati dopo la loro morte, anche se in modo e con significati diversi , delle divinità. La scomparsa di questi uomini insomma non venne accettata dai contemporanei e si volle credere in una loro diversa è più alta esistenza dopo la fine della loro avventura umana.

“Non ho preso niente per me, e nessuno può rinfacciarmi che io nasconda dei tesori. Io mangio lo stesso cibo che mangiate voi..mi sveglio prima di voi mentre voi ancora dormite tranquilli nelle vostre brande. Qualcuno di voi poi potrebbe pensare che mentre voi avete fatto conquiste con fatiche e sofferenze io me appropriavo senza alcuno sforzo. Ma chi di voi è convinto di aver durato più fatiche per me che non io per lui? Guardate, chi di voi ha delle ferite si spoglie e le mostri. Anche io mostrerò le mie. Perché non c’è  una parte del mio corpo, almeno davanti, che non ha cicatrici; non c’è arma corta o da lancio da lontano che non mi abbia lascato un segno. Sì, sono stato ferito di spada in corpo a corpo. Sono stato trafitto da frecce, colpito da una catapulta, battuto da pietre e mazze, per voi, per la vostra gloria e per la vostra ricchezza. Vi ho guidato vittoriosi attraverso ogni terra, ogni fiume, montagna e pianura..e finchè io vi ho guidati nessuno di voi è morto fuggendo”

Un vento che nessuno si aspettava e per il quale nessuno si era preparato Alessandro non aveva ancora compiuto trentatré anni  e nemmeno lui si aspettava di morire.

Editto di Teodosio 380 d.c.
In seguito a un altro editto del 391 estese le proibizioni anche ad Alessandria che godeva di speciali esenzioni. A quel punto il vescovo della città, Teofilo si ritenne autorizzato ad abbattere i santuari antichi e guidò la distruzione del Serapeo iniziando lui stesso la demolizione della colossale statua di Serapide. Poi fu la volta della biblioteca del tempio, una specie di succursale della Grande Biblioteca che andò completamente perduta. Come si è detto prima, non sappiamo quali fossero le condizioni della tomba di Alessandro né se il furore dello zelo cristiano abbia distrutto ciò che di essa era rimasto.

Sappiamo che vi furono a varie riprese atti di vandalismo nei confronti delle sedi di civiltà pagana e vi furono gravissime violenze contro i suoi esponenti  culturali, come l’uccisione di Ipazia nei primi  anni del V secolo  a opera di un gruppo di facinorosi  cristiani guidati da un tale Pietro detto il Lettore. Ipazia, accusata di impedire la riconciliazione tra il prefetto Oreste e il vescovo Cirilllo era in realtà odiosa perché scienziato, filosofo e donna bellissima e perché teneva scuola, allevava un gruppo di solidi intellettuali che avrebbero a loro volta trasmesso i valori di una civiltà manifestazione dell’errore. Fu strappata dal suo carro, denudata e trascinata nel Cesareo, il tempio che Cleopatra aveva dedicato al culto di Cesare, ora chiesa cristiana, e massacrata. Il suo corpo fu scarnificato con cocci accuminati di vasi , gli ostraka (secondo alcuni quando era ancora viva) e poi bruciato.

La fine del mondo antico è simboleggiata da eventi passati quasi sotto silenzio ma di enorme portata fu una fine violenta imposta per decreto.

Più difficile è dimostrare perché mai il corpo stesso di Alessandro sarebbe stato spacciato per San Marco. Chugg pensa a qualche suo ammiratore cristiano, un alto esponente del  clero forse che avrebbe voluto salvar le spoglie mortali dalla furia iconoclasta in seguito agli editti teodosiani del 391 che diedero di fatto mano libera ai fanatici che volevano distruggere ogni traccia di religione antica

venerdì 28 novembre 2014

La confessione negativa

La confessione negativa: "Solo allora il defunto, scortato da Anubi, era ammesso al cospetto di Osiride per il giudizio finale. Davanti al tribunale del supremo Dio dell'Aldilà, composto da 42 divinità, egli doveva pronunciare la "confessione negatvia", elencando tutte le colpe di cui non si era macchiato: . Per accertarsi di queste affermazioni, però, Anubi avrebbe posto su una bilancia da un lato il cuore del defunto, dall'altro la piuma di Maat, dea della verità. Se il cuore si fosse rilevato più pesante della piuma perchè carico di peccati, sarebbe stato inghiottito da Ammit, la "divoratrice", un demone mostruoso con la testa di coccodrillo e il corpo metà leone e metà ippopotamo, che avrebbe precluso all'anima l'agognata eternità. In caso contrario, il defunto sarebbe stato "giustificato", ovvero dichiarato 'giusto di voce' e avrebbe avuto accesso al regno di Osiride" N.69-Novembre 2014, Storica, le Mummie Di Anubi

martedì 11 novembre 2014

BREVI INTERVISTE CON UOMINI SCHIFOSI di David Foster Wallace

Sulla scia del brusco abbandono senza parole della terapeuta, esternava dal telefono in cuffia della sua postazione lavorativa, quanto fosse angosciosamente esiguo il numero delle persone con le quali poteva sperare di comunicare davvero e esternare e costruire, sani, aperti, fiduciosi, rapporti di reciproco incoraggiamento sui quali fare affidamento.

Si sarebbe accontentata anche di quello, promise rannicchiata e tremante in posizione semifetale sulla punta della sedia ergonomica nel cubicolo della sua postazione lavorativa- e perciò ora esortava l’amica malata terminale a continuare, a non tirarsi indietro, a dirgliene quattro: quali parole e termini si potevano impiegare per descrivere e valutare quel vuoto e quella spugna emotivi così solipsistici , auto logoranti e senza fondo che ora le sembrava di essere?

Il diavolo è un tipo impegnato

Io chiesi a papà che lezione trarre dalla cosa e lui disse che secondo lui era che non puoi insegnare a un porco a cantare e mi disse  di andare a rastrellare la ghiaia del vialetto del fossato prima che fottesse il canale di scolo.

Più l’intensità di quella spinta sembra essere direttamente proporzionale all’intensità e all’urgenza con la quale a quanto pare trovo poi la maniera di tirarmi indietro. I trascorsi indicano che questa sorta di improvvisa inversione della spinta avviene proprio quando ho la sensazione di averle. Qualunque cosa significhi averle- a essere onesto mica lo so bene. A quanto pare significa quando so per certo e sento che ormai sono coinvolte nel rapporto e nella prospettiva futura quanto lo sono io. Lo sono stato. Lo ero.

A certi complessi è meglio semplicemente arrendersi e accettarli anziché lottare contro l’imago per pura forza di volontà.

E’ un libro davvero straordinario e adesso pensaci, se non ci fosse stata una cosa come l’Olocausto non ci sarebbe stato un libro come alla ricerca di un significato della vita….avere un atteggiamento stereotipato nei confronti di qualsiasi cosa è un grande errore, questo dico.

Ma non ce l’ho. Nessuno ce l’ha. Succedono cose davvero terribili. L’esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili. Dammi retta, io lo so, io ci sono passato, io.

Due drogati terminali all’ultimo stadio erano seduti contro il muro di un vicolo senza niente da iniettarsi, niente di niente, nessun posto dove andare o stare. Uno soltanto aveva il cappotto. Faceva freddo, e uno dei drogati terminali batteva i denti e sudava e tremava per la febbre. Sembrava gravemente malato. Puzzava da fare schifo. Stava seduto contro il muro con la testa sulle ginocchia. Questo succedeva a Cambridge, Massachusetts in un vicolo dietro il Commonwealth centre per il recupero delle lattine di alluminio di Massachusetts Avenue nelle prime ore del 12 gennaio 1993. Il drogato terminale con cappotto si tolse il cappotto e corse a rannicchiarsi vicino al drogato terminale gravemente malato e prese e stese il cappotto in modo che li coprisse tutti e due e poi si rannicchiò un altro poco tanto da ritrovarsi schiacciato contro l’altro e lo circondò con un braccio e lasciò che si sentisse male sul suo braccio, e rimasero così insieme contro il muro per tutta la notte.
D: quale dei due è sopravvissuto.

Una analogia potrebbe essere: immagina di essere andato a una festa dove non conosci quasi nessuno, e poi tornando a casa all’improvviso ti rendi conto che per tutta la festa ti sei talmente preoccupato di capire se piacevi o no ai presenti che adesso non hai la minima idea se a te è piaciuto qualcuno di loro. Chiunque abbi avuto una simile esperienza sa che è assolutamente letale presentarsi a una festa con un simile atteggiamento.


L’intensità di un desiderio D è inversamente proporzionale alla facilità di soddisfazione di D. Noto anche come amore romantico.

mercoledì 15 ottobre 2014

1984 di George Orwell



Su ogni pianerottolo, di fronte al pozzo dell’ascensore, il manifesto con quel volto enorme guardava dalla parete. Era uno di quei ritratti fatti in modo  che, quando vi muovevate, gli occhi vi seguono. IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA, diceva la scritta in basso.

Il volume dell’apparecchio ( si chiamava teleschermo)poteva essere abbassato , ma non vi era modo di spegnerlo.

La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza

Il ministero della verità , che si occupava dell’infromazione, dei divertimenti, dell’istruzione delle belle arti; il Ministero della Pace  che si occupava della guerra; il ministero dell’amore, che manteneva la legge e l’ordine pubblico; il ministero dell’Abbondanza responsabile degli affari economici.

La cosa  orribile dei due minuti dell’Odio era che nessuno veniva obbligato a recitare. Evitare di farsi coinvolgere era infatti impossibile. Un’estasi orrenda, indotta da un misto di paura e di sordo rancore , un desiderio di uccidere, di torturare, di spaccare  facce a martellate, sembrava attraversare come una corrente elettrica tutte le persone lì raccolte, trasformando il singolo individuo, anche contro la sua volontà, in un folle urlante, il volto alterato dalle smorfie.

La mente gli scivolò nel mondo labirintico del bi pensiero. Sapere e non sapere; credere fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte; ritenere contemporaneamente valide due opzioni che si annullavano a vicenda; sapendole contraddittorie tra di loro  e tuttavia credendo ad entrambe, fare uso della logica contro la logica; rinnegare la morale proprio nell’atto di rivendicarla; credere che la democrazia sia impossibile e nello stesso tempo vedere nel Partito l’unico suo garante; dimenticare tutto ciò che era necessario dimenticare ma, all’occorenza essere pronti a richiamarlo alla memoria,per poi dimenticarlo di nuovo.

Nel tuo cuore preferiresti ancora l’archeolingua, con tuta la sua imprecisione e le sue inutile sfumature di senso. Non riesci a cogliere la bellezza insita nella distruzione delle parole. Lo sapevi che la neolingua è l’unico linguaggio al mondo il cui vocabolario si riduce giorno per giorno?
Non capisci che lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero? Alla fine renderemo lo piscoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno parole con cui poterlo esprimere. Ogni concetto di cui si possa aver bisogno sarà espresso da una sola parola, il cui significato sarà stato rigidamente definito, priva di tutti i suoi significati ausiliari, che saranno stati cancellati e dimenticati.

In effetti il pensiero non esisterà più almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa.

La libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro. Garantito ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente.

Se si osservano le regole piccole, si potevano infrangere quelle grandi.

La guerra è un modo per mandare in frantumi, scaraventare nella stratosfera, affondare negli abissi marini, materiali che altrimenti potrebbero essere usati per rendere le masse troppo agiate e, a lungo andare, troppo intelligenti.

La libertà è schiavitù. Hai mai pensato che si possono invertire i termini? La schiavitù è libertà. Da solo, libero , l’essere umano è sempre sconfitto. Deve essere per forza così, perché l’essere umano è destinato a morire, e la morte è la più grande delle sconfitte. Se però riesce a compier un atto di sottomissione totale ed  esplicita , se riesce a uscire dal proprio io , se riesce a fondersi con Partito in modo da essere lui il Partito, diviene onnipotente e immortale.


Ora amava il grande fratello.

domenica 21 settembre 2014

Memoria delle mie puttane tristi di Gabriel Garcia Marquez

Non avevo mai ceduto a questa né  ad altre delle sue molte tentazioni oscene, ma lei non credeva nella purezza dei miei principi. Anche la morale è una questione di tempo, diceva, con un sorriso maligno, te ne accorgerai.

Lui non vi attribuì importanza : è un dolore naturale alla sua età, mi disse. “In questo caso” gli dissi io “ è la mia età a non essere naturale”

Non ho mai avuto grandi amici , e i pochi che vi andarono sono vicini a New York. Ossia, morti, perché è dove suppongo che vadano le anime in pena se non hanno digerito la verità della loro vita passata.

Avevo quarant’anni , ma i redattori giovani la chiamavano la colonna di Mudarra Il Bastardo. Il direttore di allora mi convocò nel suo ufficio per chiedermi che mi mettessi in sintonia con le nuove correnti. In un modo solenne, come l’avesse appena inventato mi disse: il mondo avanza. Sì gli dissi, avanza, ma girando introno al sole.

Se c’è una cosa che detesto  in questo mondo sono le feste obbligate in cui la gente piange perché è allegra, i fuochi artificiali, le recite insulse, le ghirlande di carta pesta che non hanno nulla a che vedere con un bambino nato duemila anni fa in una stalla indigente.


E’  impossibile non finire per essere come gli altri credono uno sia.

lunedì 25 agosto 2014

CANALE MUSSOLINI di Antonio Pennacchi

Mica che uno va in giro tutto il santo giorno a dire alla gente “Guardate che ho la furia appresso”. Uno se la porta dentro nascosta  bene bene in una piega dell’anima e magari non esce mai fuori. Ma poi salta il giorno in cui meno te lo aspetti e ti pungono sul viso, nel vivo di quella piega d’anima e la furia esce fuori e prende il sopravvento e tu dopo dici :”Ma che è successo? Io non lo volevo fare. Torniamo indietro di un minuto solo, vi prego, torniamo tutto com’era prima”.
E invece niente sarà più come prima e magari ci fosse, quel giorno, tua madre per piangerle addosso.

Lui ha fatto”Al son driò non sentirme tanto bèn. Al resto in leto inquò” E non s’è più alzato, e venti giorni dopo , una sera, lei gli si è seduta a fianco e lui le ha detto, con voce fioca:”Come te sì bea”.
Lei ha risposto:”no caro : te sì tì che te sì beo”, e lui poco dopo è morto.
Lei era andata avanti e indietro su e giù per le scale per tutti i venti giorni ad accudirlo come un bambino e dopo morto se lo è voluto lavare e vestire lei e il giorno dopo, al funerale, è rimasta impettita per tutta la cerimonia-fino al camposanto- impettita e senza una lagrima. La sera però, tornati a casa , s’è messa in letto e non si è alzata più, e venti giorni dopo è morta pure lei.

Ma buono pure come il pane, non era però un uomo da sottrarsi al destino; quel che è fatto è fatto e così, lasciata la strada grande, ha preso la ponderale verso casa.

Cinquant’anni prima eravamo ancora tutti divisi-cento statarelli in cui dall’uno all’altro ti ci voleva il passaporto- e tutti gli stranieri che venivano in Italia la facevano da padroni. Lo zimbello d’Europa eravamo. E neanche cinquanta anni dopo diventavamo una potenza che andava a sfidare la Turchia e a colonizzare l’Africa.

E lui imperterrito ad aspettare i tre minuti e appena sono passati s’è rimesso l’orologio piano piano nel panciotto riavvolgendo la catenella e ha detto soddisfatto” Che v’avevo detto io? Sono sano e salvo: Dio non esiste” E’ scoppiato un applauso che lei non ha idea. Ma anche un sospirone generale di sollievo: “aaaah”.

Prima o poi si paga” I conti con Dio  gà da èser sempre almeno pari”

“Vai a vedere se Mimì ha bisogno di qualche cosa” E così a questa sconsolata non restava che consolarsi con mio zio Pericle:”C’è che ce l’ha d’oro e che ce l’ha di latta a questo mondo”

Che altro dovevano fare? Venivano da te, tale e quale agli immigrati nostri che vengono da noi. Ma che lo sanno pure loro che nove volte su dieci gli si ribalta il barcone e muoiono affogati? Lei sta bene a dirgli: “Guarda che nove volte su dieci muori”. Quelli ti risponde: “lo so , ma dieci su dieci  muoio se resto a casa mia”.

“Eh no, queste cose non si fanno” , come se prima non lo avessero saputo che al potere c’era arrivato così, con le schioppettate, e da che mondo è mondo funziona così. Se tu sei pulito, al potere non ci vai, fai un altro mestiere, non ti metti a cercare il  potere.  Guardi anche adesso: ma secondo lei Pecorelli si è suicidato?

Norditalia-erano tutti democristiani o comunisti e il giorno dopo tutti della lega o berlusconiani? Se lei va a vedere uno per uno quelli che cucinano la bistecca, salsiccia e fagioli alle feste della lega, la maggior parte li hanno già cucinati alle feste dell’unità.  Così va il mondo.

Per Latina e per l’agro Pontino , un detto che ripetevano i nostri vecchi coloni dentro le osterie ed io l’ho sentito  sia da mio nonno che dai i miei zii:” il giorno che viene giù la palla o che si sposta, quel giorno  è la rovina per Latina-Littoria e l’Agro Pontino. Inizia la fine e non c’è più niente da fare . vien giù tutto- signore mio-. Morte e distruzione totale “ quella palla è un tappo- signore mio-Un tappo che tiene chiuse le potenze ctonie.

Allora è rimasto a casa. “Monti e Tognetti” Faceva “Monti e Tognetti!”

Poi dopo-andando a casa- tutte se la stringevano e se la coccolavano:” Mè cugnàde qua! Mè cugnà de là!”. Se la potevano insultare solo loro la cognata.

“ognun gà le so razon” diceva mio zio Adelchi: “ quello che dai, ti sarà dato”

giovedì 10 luglio 2014

Una storia semplice di Leonardo Sciascia

Aveva una voce educata, calma, suadente. “ Come tutti i folli” Pensò il telefonista.

Sei o sette automobili che anche dopo che erano arrivate continuarono a rombare, stridere e urlare, così come dal centro della città erano partire suscitando la curiosità dei cittadini e anche quella –effetto del questore desiderato tradivo al possibile-dei carabinieri: per cui il colonnello dei carabinieri, cupo in volto, arrabbiatissimo, pronto a litigare, col dovuto rispetto, col questore, arrivò una mezz’ora dopo…

“Posso permettermi di farle una domanda?...Poi gliene farò anche altre, di altra natura…Nei componimenti di italiano lei m’assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?”
“Perché aveva copiato da un autore più intelligente”
Il magistrato scoppiò a ridere. “L’Italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come, vede, non è stato poi un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…”
“L’italiano non è l’italiano: è il ragionare” disse il  professore “con meno italiano, lei forse sarebbe ancora più in alto”

“Io voglio sapere , da lei, signora, se ha qualche ragione o sospetto riguardo l’uccisione di suo marito”
La signora scrollò le spalle “Era siciliano” disse “ e i siciliani, orami da anni , chi sa perché , si ammazzano tra loro”

Ma il professore parlò dei propri mali, lasciando memorabile al brigadiere ( ma non condividibile nell’energia dei suoi trent’anni)la frase che ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire l’ultima speranza.

Lo richiamarono più di un’ora dopo.
“incidente” disse il magistrato
“Incidente” disse il colonello
“Incidente” disse il questore
E perciò sui giornali: Brigadiere uccide incidentalmente, mentre pulisce la pistola, il commissario capo della polizia giudiziaria.


Pensò di tornare indietro, alla questura. Ma un momento dopo: “ E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?”. Riprese cantando la strada verso casa.

lunedì 7 luglio 2014

La vita dunque si era risolta in una specie di scherzo, per un’orgogliosa scommessa tutto era stato perduto...

Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, come per rotto incanto. Il vortice si era fatto negli ultimi anni sempre più intenso, poi improvvisamente più nulla, il mondo ristagnava in una orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente. La strada di Drogo era finita; eccolo ora sulla solita riva di un mare grigio e uniforme, e attorno né una casa né un albero né un uomo, tutto così da immemorabile tempo.
  Dagli estremi confini egli sentiva avanzare su di sé un’ombra progressiva e concentrica, era forse questione di ore, forse di settimane o di mesi; ma anche i mesi e le settimane sono ben povera cosa quando ci separano dalla morte. La vita dunque si era risolta in una specie di scherzo, per un’orgogliosa scommessa tutto era stato perduto.
 Fuori il cielo era diventato di un azzurro intenso, all’occidente tuttavia restava una striscia di luce , sopra i violetti profili delle montagne. E nella camera era entrato il buio, si distinguevano unicamente le sagome minacciose dei mobili, il biancore del letto, la lucida sciabola di Drogo. Di là-capiva-egli non si sarebbe più mosso.
  Avvolto così dalle tenebre, mentre di sotto continuavano le dolci canzoni fra gli arpeggi di una chitarra, Giovanni Drogo sentì allora nascere in sé una estrema speranza. Lui solo al mondo e malato, respinto dalla fortezza, come peso importuno, lui che era rimasto indietro a tutti, lui timido e debole, osava immaginare che tutto non fosse finito: perché forse era davvero giunta la sua grande occasione, la definiva battaglia che poteva pagare l’intera vita.
 Avanzava infatti contro Giovanni Drogo l’ultimo nemico. Non uomini simili a lui, tormentati come lui da desideri e dolori, di carne da poter ferire, con facce da poter guardare, ma un essere onnipotente  maligno; non c’era da combattere sulla sommità delle mura, fra rombi e grida esaltanti, sotto un azzurro cielo di primavera, non amici al fianco la cui vista rianimi il cuore, non l’acre odore di polvere e fucilate, né promesse di gloria. Tutto succederà nella stanza di una locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine. Non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra i sorrisi di giovani donne. Non c’è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo.
Oh, è una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava. Anche vecchi uomini di guerra preferirebbero non provare. Perché può essere belle morire all’aria libera, nel furore della mischia, col proprio corpo ancora giovane e sano, fra trionfali echi di tromba; più triste è certo morire di ferita, dopo lunghe pene, in un camerone d’ospedale; più melanconico ancora finire nel letto domestico, in mezzo ad affettuosi lamenti, luci fioche e bottiglie di medicine. Ma nulla è più difficile che morire in paese estraneo ed ignoto, sul generico letto di una locanda, vecchi e imbruttiti, senza lasciare nessuno al mondo.
“Coraggio Drogo, questa è l’ultima carta, va incontro alla morte da soldato e che la tua esistenza sbagliata almeno finisca bene. Vendicati finalmente della sorte, nessuno canterà le tue lodi, nessuno ti chiamerà eroe o alcunché di simile, ma proprio per questo vale la pena. Varca con piede fermo il limite dell’ombra, dritto come a una parata, e sorridi, se ci riesci. Dopo tutto la coscienza non è troppo pesante e Dio saprà perdonare”
Questo, Giovanni diceva a se stesso- una specie di preghiera- sentendo stringersi attorno a sé il cerchio conclusivo della vita. E dall’amaro pozzo delle cose passate, dai desideri rotti, dalle cattiverie patite, veniva su una forza che mai lui avrebbe osato sperare. Con inesprimibile gioia Giovanni Drogo si accorse, d’improvviso, di essere assolutamente tranquillo, ansioso  quasi di ricominciare la prova. Ah non si poteva pretendere tutto dalla vita? Così dunque, Simeoni? Adesso Drogo ti farà un po’ vedere.
Coraggio, Drogo. E lui provò  a fare forza , a tenere duro, a scherzare con il pensiero tremendo. Ci mise tutto l’animo suo, in uno slancio disperato, come se partisse all’assalto da solo contro un’armata. E subitamente gli antichi terrori caddero, gli incubi si afflosciarono, la morte perse l’agghiacciante volto, mutandosi in cosa semplice e conforme alla natura. Il maggiore Giovanni Drogo, consunto dalla malattia e dagli anni, povero uomo, fece forza contro l’immenso portale nero e si accorse che i battenti cedevano, aprendo il passo alla luce.
Povera cosa gli risultò allora quell’affannarsi sugli spalti della fortezza, quel  perlustrare la desolata pianura del nord, le sue pene per la carriera, quegli anni lunghi di attesa. Non c’era neanche il bisogno di invidiare Agustina. Sì Agustina era morto in cima a una montagna nel cuore della tempesta, se n’era ndato da par suo, davvero con molta eleganza. Ma assai più ambizioso era finire da prode nelle condizioni di Drogo, mangiato dal male, esiliato fra ignota gente.
Solo gli dispiaceva di doversene andare di là con quel suo misero corpo, le ossa sporgenti, la pelle biancastra e flaccida. Agustina era morto intatto- pensava Giovanni - la sua immagine, nonostante gli anni, si mantenuta quella di un giovane alto e delicato, dal volto nobile e gradito alle donne: questo il suo privilegio.  Ma chissà che passata la nera soglia anche lui Drogo non sarebbe potuto tornare come una volta, non bello (perché bello non era mai stato) ma fresco di giovinezza. Che gioia, si diceva Drogo al pensiero, come un bambino, poiché si sentiva stranamente libero e felice.
Ma poi gli venne in mente: e se fosse tutto un inganno? Se il suo coraggio non fosse che una ubriacatura? Se dipendesse solo dal meraviglioso tramonto, dall’aria profumata, dalla pausa dai dolori fisici, dalle canzoni al piano di sotto? E fra pochi minuti, fra un ‘ora , egli dovesse tornare il Drogo di prima, debole e sconfitto?
No, non pensarci, Drogo, adesso basta tormentarsi , il più ormai è stato fatto. Anche se ti assaliranno i dolori, anche se non ci saranno più le musiche a consolarti e invece di questa bellissima notte verranno nebbie fetide, il conto tornerà lo stesso. Il più è stato fatto , non ti possono più defraudare.
La camera si è riempita di buio,solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna.
Farà in tempo , Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d’aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori dalla finestra , una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.

Dino Buzzati, Finale Del DESERTO DEI TARTARI

mercoledì 2 luglio 2014

Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace

Ho sentito cittadini americani maggiorenni e benestanti che chiedono all’Ufficio Relazioni con gli Ospiti se per fare snorkeling c’è bisogno di bagnarsi, se il tiro al piattello si fa all’aperto, se l’equipaggio dorme a bordo e a che ora è previsto il buffet di mezzanotte.

Confrontate questa debolezza con la forza pubblicitaria della 7NC: l’uso quasi imperativo della seconda persona, i dettagli minuziosi che si estendono persino a  quello che direte ( siete voi che dite “sono perfettamente d’accordo” e “facciamo tutto”). Nella Brochure della crociera voi siete esonerati dalla fatica di costruire il sogno. Lo fa la pubblicità al posto vostro. La pubblicità, insomma, non manipola la vostra capacità d’azione, né la ignora: semplicemente, la sostituisce.

"io ho trentatre anni, e sento di aver già vissuto tanto che ogni giorno passa sempre più velocemente. Ogni giorno sono costretto a compiere una serie di scelte su cosa è bene importante o divertente, e poi devo convivere con l'esclusione di tutte le altre possibilità che quelle scelte mi precludono. E comincio a capire che verrà un momento in cui le mie scelte si restringeranno e quindi le preclusioni si moltiplicheranno in maniera esponenziale finché arriverò a un qualche punto di qualche ramo di tutta la sontuosa complessità ramificata della vita in cui mi ritroverò rinchiuso e quasi incollato su di un unico sentiero e il tempo mi lancerà a tutta velocità attraverso vari stadi di immobilismo e atrofia e decadenza finché non sprofonderà per tre volte, tante battaglie per niente, trascinato dal tempo. E' terribile. Ma dal momento che saranno proprio le mie scelte a immobilizzarmi, sembra inevitabile, se voglio diventare maturo, fare delle scelte, avere rimpianti per le scelte non fatte e cercare di vivere con essi.
-Non cosi sulla lussuosa e immacolata Nadir."..

Perché è prorpio questa- La promessa di appagare la parte di me che, sempre e soltanto, vuole-l’illusione fondamentale che la brochure vende. E’ da notare che la vera illusione , qui, non è che questa promessa sarà mantenuta, ma che sia possibile mantenerla. Questa è una grande, gigantesca menzogna. E naturalmente io voglio crederci- fanculo a Budda- voglio credere che magari questa vacanza dell’estrema illusione mi vizierà a sufficienza, che il lusso e il piacere saranno somministrati in maniera così completa e impeccabile che la mia parte infantile si sentirà finalmente appagata. Ma la mia parte infantile è insaziabile- e anzi, la sua essenza, i suo Dasein o quant’altro, sta proprio nella sua insaziabilità a priori. In risposta alla prospettiva di una gratificazione e un accadimento straordinari, la mia insaziabile parte infantile non farà che accrescere la soglia di soddisfazione fino a conseguire di nuovo la sua omeostasi di grave insoddisfazione.

Se ci ripenso adesso mi pare che questa bambina sia un po’ troppo alta per avere nove anni, ha un’aria spenta, le spalle curve in quella postura che assumono di solito le ragazze molto più grandi- una postura di difesa psicologica. Per quanto sia brava a scacchi, non è una bambina felice. Non penso sia una cosa adatta alla sua età- Deirde prende una sedia e dice che di solito preferisce il nero e mi informa del fatto che in molte altre culture il nero non rimanda al lutto ma è l’equivalente spirituale di ciò che rappresenta il bianco negli stati uniti e che in queste altre culture è il bianco che rappresenta il macabro. Le dico che tutto questo già lo so.

Il pubblico della conferenza  è composto da uomini calvi, solidi e dai polsi spessi, tutti ultracinquantenni, che sembrano quei tipi che arrivano ad amministrare un’azienda risalendo dalle fila della sezione ingegneristica interna, e non da qualche master strafico in business Administration.

Anche SE , più che di ferro bisognerebbe parlare di lega al titanio purissimo: tutti i pesi dell’OHC sono di metallo inossidabile e lucido, e stanno in uno di quei posti con gli specchi su tutti e quattro i lati, che vi costringono a esibirvi in un autoesame pubblico tanto irresistibile, quanto straziante, e ci sono macchine enormi che sembrano insetti giganti che imitano le condizioni aerobiche di scalinate, barche a remi, biciclette da corsa e sci da fondo inopportunamente sciolinati, complete di elettrodi per il monitoraggio cardiaco; e su queste macchine ci sono persone in lycra che vorresti davvero prendere da parte e consigliargli nella maniera più delicata e amorevole di non mettersi mai più quella tutina.



lunedì 30 giugno 2014

Rosso Malpelo-Giovanni Verga


Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.  Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c'era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.  Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.  Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel po' di pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c'ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio dell'asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s'era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e laCaverna, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava.  Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell'ingrottato, e dacché non serviva più, s'era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l'asino da basto di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com'era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: - Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre -.  Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l'avvocato.  Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l'avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n'erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c'era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava:  - Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! - e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il cottimante!  Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! anch'esso. Malpeloandava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino.  Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: - Tirati in là! - oppure: - Sta attento! Bada se cascano dall'alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! - Tutt'a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.  L'ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch'era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L'ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell'e arrivato in Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n'era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell'affare di mastro Bestia!  Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero.  - To'! - disse infine uno. - È Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso?  - Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia... -  Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.  Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall'altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari. Ma l'asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava:  - Così creperai più presto! -  Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll'anello di ferro al naso. Sapendo che eramalpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l'avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: - Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevanoBestia, perché egli non faceva così! - E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un'occhiata torva: - È stato lui! per trentacinque tarì! - E un'altra volta, dietro allo Sciancato: - E anche lui! e si metteva a ridere! Io l'ho udito, quella sera! -  Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s'era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così Ranocchio com'era, il suo pane se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.  Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: - To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! -  O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: - Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! - Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll'occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n'era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva dire aRanocchio: - L'asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s'ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi -.  Oppure: - Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso -.  Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo' di uno che l'avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. - La rena è traditora, - diceva a Ranocchio sottovoce; - somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui -.  Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: - Taci, pulcino! - e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te -. Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo -.  Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliel'aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui. Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono malpelo! - e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.  Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull'uscio in quell'arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Per questo, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre povere bestie che non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.  La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e lercio com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d'ingresso è a picco, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.  Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all'azzurro del cielo, col sole sulla schiena, - o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava a Ranocchio del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l'intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all'infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n'erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.  Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all'aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall'altra.  Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l'aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt'ora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte.  - Proprio come suo figlio Malpelo! - ripeteva lo sciancato - ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là -. Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.  Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno, e di carne battezzata. La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto.  Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una accanto all'altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.  Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l'età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l'asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara.  - Così si fa, - brontolava Malpelo; - gli arnesi che non servono più, si buttano lontano -.  Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l'avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rossonon lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera, - gli diceva, - che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al grigio? Adesso non soffre più -. L'asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po' di vigore nel salire la ripida viuzza. - Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch'esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: «Non più! non più!». Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio -.  La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che la terra lì sotto era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c'era entrato da giovane, e n'era uscito coi capelli bianchi, e un altro, cui s'era spenta la candela, aveva invano gridato aiuto per anni ed anni.  - Egli solo ode le sue stesse grida! - diceva, e a quell'idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva.  - Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d'andare. Ma io sonoMalpelo, e se non torno più, nessuno mi cercherà -.  Pure, durante le belle notti d'estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch'essa, come la lava, ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell'alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente - perché allora la sciarasembra più bella e desolata.  - Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, - pensava Malpelo, - dovrebbe essere buio sempre e da per tutto -.  La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava:  - Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perché non può andare a trovarli -.  Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava, perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l'asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.  - Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti, - gli diceva, - e allora era tutt'altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei morti -.  Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c'era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. - Chi te l'ha detto? - domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma.  Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. - Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella -.  E dopo averci pensato un po':  - Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io -.  Da lì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull'asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell'aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue; allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così come l'aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l'operaio se ne fu andato, aggiunse:  - Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro! -  Intanto Ranocchio non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; la sera poi non c'era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l'occhio spento, preciso come quello dell'asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava:  - È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi! -  E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.  Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro. Malpelosi informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.  Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta; sembrava che badasse a contare quanti travicelli c'erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l'aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo.  Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così. Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s'era asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un'altra volta, ed era andata a stare a Cifali colla figliuola maritata, e avevano chiusa la porta di casa. D'ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.  Verso quell'epoca venne a lavorare nella cava uno che non s'era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni. Malpeloseppe in quell'occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista.  Da quel momento provò una malsana curiosità per quell'uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci coi suoi piedi.  - Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? - domandò Malpelo.  - Perché non sono malpelo come te! - rispose lo Sciancato. - Ma non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa! -  Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d'opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c'era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo, per tutto l'oro del mondo.  Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l'oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.  Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.